Liberiamo Julian Assange (anche col nostro lavoro traduttivo…)

Julian Assange (foto di repertorio) e la moglie avvocata Stella Moris

La mattina del 27 aprile 2023 è stato presentato nella sede romana di Radio Radicale, organizzato dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana, il libro di Nils Melzer con Oliver Kobold, Il processo a Julian Assange. Storia di una persecuzione, tradotto da me e Viola Savaglio per i tipi dell’editore romano Fazi, con prefazione di Stefania Maurizi (la maggiore specialista in Italia su Assange) e freschissimo di stampa. Sarebbe stato bello saperlo per tempo, ma cliccando qui sotto potete comunque ricuperare la registrazione integrale dell’evento, che dura un paio d’ore (c’è un refuso nel titolo riportato sulla pagina del sito, manca la ‘r’ dal cognome dell’autore principale):

https://www.radioradicale.it/scheda/696611/

L’ex senatore e saggista politico Vincenzo Vita

Fra tanti relatori che hanno partecipato, solamente Vincenzo Vita ha speso qualche parola per elogiare la buona riuscita del lavoro, dal punto di vista editoriale e soprattutto traduttivo! Qui potete leggere una sua recensione del volume, vibrante come l’intervento a voce. Un altro suo articolo a favore di Assange uscì sul quotidiano «il manifesto» il 18 giugno 2022.

Dopo questi convenevoli, anche un po’ troppo sbrodolati, vi invito ad andare al minuto 1h 05 del video (sul sito si può anche seguire soltanto l’audio) per condividere il piacere che ho provato, insieme a Viola Savaglio e Laura Senserini, ascoltandolo.

A Viola (collega iscritta ad AITI e dal 2010 docente di Interpretazione consecutiva e Terminologie tecniche, per le lingue tedesco e inglese, presso la Scuola per Mediatori Linguistici Carlo Bo di Bari) non ho difficoltà a riconoscere il pieno merito per l’alto livello e la qualità della traduzione italiana, che richiedeva competenze specifiche di terminologia giuridica, da armonizzare con l’intento dell’autore di fornire un testo leggibile dal pubblico più ampio. Come difatti scrive Melzer stesso nell’introduzione, il suo libro riassume «in forma facilmente accessibile la mia indagine e le conclusioni a cui sono giunto, citando di volta in volta le prove più rilevanti», perché lo ha scritto «non come avvocato di Julian Assange, bensì come avvocato dell’umanità, della verità e dello Stato di diritto», dato che «non voglio lasciare ai miei figli un mondo nel quale i governi possano passare impunemente sopra allo Stato di diritto e nel quale sia diventato un reato dire la verità» (pp. 11, 14 e 13). Ora, questo risulta singolarmente interessante proprio anche per la situazione che stiamo vivendo in Italia, nella crisi delle nostre istituzioni di fronte a un governo dichiaratamente di destra per la prima volta dopo molti anni.

Perdonate la divagazione, ma ritengo che tradurre non sia un’attività svolta in isolamento, sganciata dalla realtà sociale, politica, economica che la circonda (e a prendere davvero bene in considerazione tutte le circostanze, non era così neppure in epoca medievale, nonostante le apparenze del contrario). Tornando al testo, ci tengo a segnalare che la traduzione è stata avviata per il primo centinaio di pagine sull’edizione tedesca, ma per decisioni sopraggiunte in corso di lavorazione da parte di Melzer stesso abbiamo dovuto cambiare improvvisamente rotta, virando sull’edizione in lingua inglese che stava per uscire. Questo ha comportato un ritardo nei tempi concordati, dato che ci siamo dovuti far carico pazientemente della revisione completa della prima parte, sia perché i contenuti erano stati ora più, ora meno rimaneggiati, sia perché abbiamo toccato con mano quanto la struttura di un testo saggistico in inglese sia strutturalmente differente da quella anche del medesimo testo in tedesco. Se non si fosse capito, l’abbiamo dovuta riscrivere quasi interamente daccapo!

A completamento di queste informazioni di sfondo, rammento che questo testo è un altro obiettivo raggiunto nella crescita professionale di Viola, passata dall’ambito più tecnico-specialistico (come si può leggere sul suo sito personale) alla traduzione letteraria, in cui aveva già dato buona prova di sé nella resa del Tempo della speranza, l’ultimo volume della trilogia di Brigitte Riebe (Fazi 2022, anch’esso un lavoro a quattro mani, ma in quel caso con la collega maremmano-berlinese Teresa Ciuffoletti). Qui ve ne suggerisco la recensione entusiastica di Alessandra Fontana, che si era già sciroppata i due tomi precedenti.

A Laura Senserini, già caporedattrice di lungo corso per Fazi (sin dai tempi di Elide…) va invece la mia stima più sincera per la grande professionalità dimostrata, ma soprattutto anche la comprensione paziente che continua a elargire a chi collabora con lei. Ma in questo caso particolare le sono particolarmente grato per avermi dato la possibilità di tradurre, dopo la serie costituita da Hamilton e Ohlberg, i due Ganser e Wagenknecht (vedi qui sotto la sventagliata di copertine), un libro altamente significativo, di grande impegno etico e sociale.

La mano invisibile

Breve storia dell’impero americano

Le guerre illegali della NATO

Contro la sinistra neoliberale

Si parva licet, questa è stata anche per me un’occasione speciale: infatti per la prima volta mi sono impegnato a chiedere e ottenere riconoscimenti nuovi e particolari nel contratto di affidamento del lavoro (anche a beneficio di Viola, il va sans dire). E auspico che siano soltanto l’inizio di una strada, che anche discutendone con altr* collegh* si preannuncia lunga e complessa, ma che tutt* vorremmo portasse al miglioramento sensibile e concreto delle condizioni di lavoro di chi si dedica a questa attività così bella, ma anche così negletta. Perché stavolta, in forza della direttiva 790 del 2019 dell’Unione Europea, debitamente recepita nella nostra “legge sul diritto d’autore” (633/1941 con tutte le modifiche successive), possiamo far valere meglio i nostri diritti, come spiega bene STradE, il sindacato dei traduttori editoriali (e se non ne sapete granché ma la cosa vi interessa, andate a leggervi pure questa pagina).

Brevissime sul Coronavirus – no, scusate, sul Covid…

Fa ancora troppo caldo per impegnarmi in un post “serio”, ma intanto mi sono imbattuto in questa breve intervista al linguista siciliano Salvatore Claudio Sgroi, in occasione dell’uscita del suo ultimo libro per le Edizioni dell’Orso (piccola, ma attiva casa editrice di Alessandria che vanta ottimi testi di linguistica, molto specializzati — ma questo di Sgroi non lo è, almeno stando a quel che ne dice lui stesso) che voglio segnalare qui, anche per alcuni link molto pertinenti al suo interno.

Decenni fa Sgroi si era occupato di chomskismo e anche di sociolinguistica (vabbè, qualcosa del genere), ma ai suoi esordi figura anche la traduzione per Astrolabio Ubaldini del volume di Jean-Louis Schefer, Scenografia di un quadro. Un saggio di semiotica della pittura, 1974 (ed. or. francese 1969).
Esso fu per qualche tempo un testo-guida (effettivamente uno dei primi a cimentarsi nel difficile campo indicato nel sottotitolo, campo nel quale anche Eco aveva qualche incertezza a muoversi…), ma attualmente non figura sul sito dell’editore, cioè in pratica è esaurito e non si avverte alcuna necessità di ristamparlo.

Mi è subito venuto in mente che potrebbe essere proficuo accostare alle riflessioni di Sgroi anche quelle snocciolate pressoché quotidianamente da Licia Corbolante nel suo apprezzato blog “Terminologiaetc.it”. In particolare, è intervenuta spesso anche lei su espressioni italiane indotte, e anche in qualche modo ‘deformate’, dalla pandemia devastante in cui siamo immersi tuttora.
Ecco dunque i post che risultano effettuando una ricerca sul suo sito con le parole chiave “covid” (15 in prima battuta, dal 29 luglio al 9 giugno) e “coronavirus” (altrettanti, ma dal 7 agosto al 25 maggio); per i motivi spiegati bene da Sgroi, però, alcuni sono in comune, quindi il totale è leggermente inferiore.

Buone letture!

Per Enrico Ganni, r.i.p.

Non ho mai lavorato per Einaudi, quindi non ho avuto l’occasione di conoscere di persona Enrico Ganni, editor e traduttore dal tedesco per la casa torinese, purtroppo scomparso prematuramente il 17 luglio scorso. Dunque avevo qualche scrupolo a metter mano a questo post, pur ‘sentendomelo’, ma alla fine l’auspicio che le (buone) ragioni per averlo fatto emergano dalla mia stessa argomentazione mi ha convinto a superare le perplessità iniziali.

Da sinistra a destra, Enrico Ganni, Claudia Zonghetti e Leonardo Marcello Pignataro.

La foto1 qui sopra è stata scattata dalla traduttrice e animatrice culturale Anna Nadotti2 durante la presentazione a Torino il 2 novembre 2016, presso la Libreria Bardotto di via Giolitti, della nuova traduzione di Anna Karenina (Einaudi 2016, collana «Supercoralli», pp. 968, €28), romanzo capitale di Lev Tolstoj, pubblicato originariamente a puntate fra il 1875 e il 1877 (dopo dodici stesure, sembra). L’evento faceva parte di un ciclo, organizzato da Anna Nadotti stessa con Annalisa Ferretti, che si chiamava: “Leggere e rileggere in compagnia di traduttori e editor”.

La bella istantanea ritrae il sorriso sornione di Enrico Ganni, che probabilmente aveva intravisto Anna Nadotti mentre inquadrava i relatori; poi a destra, col microfono in mano, c’è Leonardo Marcello Pignataro (valentissimo traduttore da inglese, russo, francese, latino e slovacco, docente di vari corsi di traduzione e membro del comitato scientifico della Casa delle Traduzioni a Roma, insieme a Ilaria Piperno) e al centro l’eroina della serata, Claudia Zonghetti, autrice (in senso forte, come ha spiegato lei stessa) della traduzione suddetta.3

Ganni presenta già lucidamente se stesso e il lavoro che fa all’Einaudi, «un po’ strano, non facile», nell’intervista rilasciata a Sara Meddi il 22 aprile 2015, che consiglio a tutti di (ri)leggere.
Un suo intervento che svela chi fu l’inventore del nome dei Gialli, e cioè (spoiler!) Enrico Piceni, è uscito sul primo numero della rivista «Tradurre» (autunno 2011).
Più di recente, il 28 settembre 2019, a Roma, Ganni aveva ricevuto il premio “Giovanni, Emma e Luisa Enriques” nell’ambito delle XVII Giornate della traduzione letteraria (seguendo il link è possibile leggere la motivazione del riconoscimento, assegnato all’unanimità dalla giuria, formata da Stefano Arduini, Ilide Carmignani ed Ernesto Ferrero).

Può essere utile ricordare che Ganni visse a Francoforte sul Meno fino al completamento degli studi secondari: quindi era praticamente bilingue! Questo in parte spiega come abbia cominciato a lavorare in Mondadori, per passare poi a Feltrinelli; inoltre insegnò lingua tedesca presso il Goethe-Institut milanese, traduzione tedesca dal 1981 al 2000 presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori (che oggi si chiama Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli, che diresse anche dal 1994 al 1998) e fu lettore presso l’Istituto di Germanistica alla Statale di Milano.

L’articolo a mio avviso migliore su chi era e cosa ha fatto Enrico Ganni è quello di Roberto Gilodi, pubblicato su «Doppiozero» assai più tempestivamente di questo mio post. Ne cito qualche passo, cominciando dall’«eleganza gentile e l’ironia garbata ma mai irriverente» dello scomparso, a: «La mitezza di Ganni faceva tutt’uno con la sua franchezza e con la determinazione schietta a dire i no che all’editoria di cultura sono vitali per progredire», fino al giudizio conclusivo su «un uomo buono che ha saputo coniugare la cultura con l’umanità dei gesti semplici».
In tutto ciò Gilodi, che lavorò in Einaudi con Ganni a cavallo tra la seconda metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, racconta di come l’amico e collega, in visita a Günter Grass nell’abitazione di Lubecca, seppe far dire spontaneamente allo scrittore tedesco su cosa stesse lavorando ma senza porre domande dirette, intrusive. Splendido esempio di come Ganni «sapeva stabilire con i suoi autori una sorta di intimità sui contenuti che gli permetteva di entrare nel loro mondo creativo pur mantenendo una distanza rispettosa dalle loro vite. Un comportamento per nulla frequente nell’editoria, spesso succede l’opposto» (mio il corsivo su questo commento finale).

Un altro grande merito di Ganni è stato quello di aver ripristinato coraggiosamente l’intento a cui si era ispirato una trentina di anni fa Giorgio Agamben, decidendo di curare l’edizione einaudiana di Walter Benjamin. Che era un criterio cronologico, mentre l’edizione tedesca curata da Wolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser (più altri ancora, che soppiantava la prima scelta di opere benjaminiane, curata nel 1955 da Theodor W. Adorno in due volumi, ma sempre per Suhrkamp4) ne segue uno tematico. In queste due opzioni di costruire un ouvrage si intravedono, a mio giudizio, due tradizioni culturali ben precise e consolidate, dove in Italia prevale un’impostazione storicista, anche se non da intendere in senso strettamente o unicamente storiografico5.

L’edizione rilegata delle Gesammelte Schriften di Benjamin per Suhrkamp

E penso di non sbagliare troppo se trovo una qualche rispondenza con l’impostazione concordata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari con la triade Luciano Foà (anche qui un articolo simile), Bobi Bazlen6 e Roberto Olivetti per il capolavoro della esordiente Adelphi: ossia la prima edizione critica di tutte le opere di Friedrich Nietzsche, che ne fu contemporaneamente la loro traduzione in italiano, un caso più unico che raro, per quanto io ne sappia.7 A parte, poi, che ciò farebbe il paio con la circostanza fortuita (ma sarà davvero tale?), per cui Ganni subentrò in Einaudi a Roberto Cazzola, quando questi scelse di passare ad Adelphi dopo almeno vent’anni di militanza presso lo struzzo torinese8 e a sua volta Renata Colorni trasmigrò da Adelphi a Mondadori, per dirigere la collana dei «Meridiani».

Nietzsche-Adelphi-economica

Se questo non basta, apriamo una risorsa essenziale per traduttori e redattori, l’Opac Sbn, e lanciamo una banale ricerca col suo nome e cognome: il programma restituisce 132 occorrenze, da cui vanno cassati appena un paio di casi di omonimia. Negli altri troviamo il meglio della letteratura tedesca moderna e contemporanea: Goethe, Fontane, Kafka, Freud, Musil, Roth, Hesse, Brecht, Canetti, Grass, Zweig, Drewermann, Enzensberger, Fitzek, Améry, Grünbein sono stati tutti tradotti o perlomeno curati da Ganni – ponendolo così a pari livello, accanto a nomi già rinomati della germanistica italiana del Novecento, come Lavinia Mazzucchetti, Cesare Cases ed Ervino Pocar – ma vi spuntano anche, curiosamente (mi sarebbe piaciuto chiedergli come mai, da traduttore di saggistica) un paio di titoli, divulgativi ma divertenti, dello psicologo creatore della scuola di Palo Alto, Paul Watzlawick.

Per finire, mi piace accostare qui in limine alcuni giudizi su Ganni, espressi ‘a caldo’ (cioè, sulla spinta dell’emozione per la sua scomparsa, fra il 18 e il 20 luglio) da sue allieve o semplici colleghi in una mailing list per traduttori (in questo caso i nomi non contano):

  • gli devo molto sia dal punto di vista umano che professionale. A lui devo buona parte di quello che ho fatto in questi ultimi dieci anni: la mia prima traduzione e, a cascata, buona parte di quelle che sono venute dopo, che senza quella prima non ci sarebbero state, l’insegnamento all’università. Insomma, oggi prendo consapevolezza di quanto sia stata una presenza fondamentale nella mia vita, una persona che ha fatto la differenza. Un docente appassionato, un grande traduttore, una persona colta e aperta, piena di voglia di fare e sempre disponibile;
  • per molti colleghi è stato un mentore, un revisore prezioso, una figura ispiratrice;
  • lo ricordo gentile e scrupoloso;
  • ho avuto il piacere di lavorare con lui una sola volta e lo ricordo gentile e scrupoloso. Era evidentemente un uomo di cultura raffinata.

Non suonano inutilmente cerimoniosi (del resto, scrivere su una mailing list è una scelta libera, nessuno è tenuto a farlo se non si prova un’esigenza effettiva), quindi non sono neanche troppo distanti dalle attestazioni di grande affetto e stima, che va oltre quella intellettuale, espresse direttamente dallo scrittore e ispanista Ernesto Franco, in qualità di direttore editoriale Einaudi, quando ha ricordato la sua

cortesia di umanità opposta a quella di convenzione, la discrezione che si prende cura del prossimo opposta a quella che se ne disinteressa completamente, l’ironia che salva opposta a quella che ferisce. […] Enrico faceva parte di quelle rare persone che solo con la loro presenza sono capaci di trasmettere più equilibrio al gruppo in cui lavorano e conversano.

Ancora sul versante editoriale, l’ex direttore della Hanser, eccellente casa editrice di Monaco, Michael Krüger (che conobbi alla Frankfurter Buchmesse come persona intellettualmente raffinata e di squisita cortesia), ha scritto un bel ricordo di Ganni sulla rivista specializzata «Börsenblatt» del 24 luglio 2020.

Trovo ammirevole anche la chiusa dell’articolo scritto da Luca Crescenzi per «il manifesto» del 21 luglio:

La sua discrezione a volte ironica mi pareva venire da una superiore saggezza, quella che in tedesco si chiama, con un bel termine, Souveranität. […] Non sono state molte, in questo paese, le persone capaci di restituire un’idea di cosa sia stata e di cosa significhi ancora oggi la classicità tedesca: il senso della misura e della civiltà nei rapporti umani, l’ironia come espressione critica del pensiero, il rifiuto dell’eccesso come principio morale, la ricerca inesauribile e congiunta della conoscenza e della felicità. Non sono stati molti, dicevo, gli intellettuali all’altezza di questo modello di civiltà e della capacità di trasmetterne l’esempio. Quegli intellettuali, però, hanno per qualche tempo reso migliore la germanistica e l’editoria italiana trasferendo in esse il senso della cultura per la vita. […] Ma ciò che muore, avrebbe detto Goethe, diventa. E il divenire di ciò che è stato deve essere il dovere di chi resta.

Dunque emerge, aleggia e si delinea da sé, quasi senza sforzo (come forse deve dare impressione di essere una buona traduzione?) la figura di un personaggio misurato, riflessivo, profondo, capace di entrare in sintonia con i propri interlocutori senza sovrastarli, ma anzi concedendo loro tutto lo spazio di cui hanno bisogno. Insomma, un concentrato delle qualità e delle caratteristiche che ogni traduttore vorrebbe trovare in un maestro. Invece oggi prevale troppo spesso la tendenza a parlare ‘sopra’, a esagerare, a forzare le proprie affermazioni, come a puntellare contro gli altri, che sono Mitmenschen, i propri consimili, la fragile debolezza dell’individualità personale, incapaci di ascoltarla, coltivarla e farla crescere in armonia condivisa.
Da quanto sono venuto riportando sin qui, mi illudo di credere che, invece, Enrico Ganni ci sia riuscito. E soprattutto che questo aspetto trasparisse agli astanti, seppur magari in maniera indistinta, anche attraverso un ‘sorriso sornione’ durante la presentazione di un libro al quale aveva dato il suo contributo, quale che fosse.

NOTE

1
Ringrazio Leonardo M. Pignataro per aver postato la foto su una mailing list per traduttori e Anna Nadotti anche per avermi concesso di riutilizzarla liberamente qui, oltre a una serie di informazioni che condivido nel mio post.

2
Per chi non conoscesse questa instancabile «critica letteraria, traduttrice e consulente editoriale per la letteratura inglese e indiana in lingua inglese», riporto qui di seguito alcune notizie cursorie, vale a dire scorciatoie informative mascherate da link a pagine su internet; l’ordine di presentazione vorrebbe essere top-down, cioè da siti più generali verso indicazioni sempre più specifiche, ma ognuno potrà riordinarli a suo piacimento (come pure suggerirne altri nei commenti a questo post, eventualità auspicata di cui ringrazio anzi sin d’ora i lettori benevoli).

  1. Ha partecipato al Festivaletteratura: clicca qui per la sua bio ed eventi collegati (anni 2002-2009).
  2. Tutti i 47 libri Einaudi legati al suo nome.
  3. Alcuni suoi insights sulla sua ritraduzione di La signora Dalloway di Virginia Woolf (Einaudi 2012).
  4. La collega Susanna Basso intervista Anna Nadotti sul numero 3 della rivista on-line «Tradurre» (autunno 2012).
  5. «Nazione indiana» ha raccolto le sue riflessioni approfondite e suggestive sul tradurre sia A.S. Byatt (con Fausto Galuzzi, 2010) sia A. Ghosh (con Norman Gobetti, 2016).
  6. Audio su «Radio Ca’ Foscari» in cui Anna Nadotti parla di Ghosh e del mestiere del traduttore (gennaio 2020).
  7. Un’intervista originale e ricca di spunti ad Anna Nadotti e Norman Gobetti sul tradurre a quattro mani, altrimenti detta più nobilmente ‘traduzione collaborativa’ (pubblicata il 26 novembre 2019).

Particolare dalla copertina della Karenina einaudiana: il volto di una delle più celebri bellezze russe dell’Ottocento, la principessa Leonilla Ivanovna Barjatinskaja, qui immortalata da Franz Xaver Winterhalter (1805-1873), famoso per tanti ritratti di regine.

3  L’uscita della nuova versione di Anna Karenina suscitò qualche polemica, che vale la pena ripercorrere, non foss’altro per osservare che anche una traduzione può scaldare gli animi; perciò riporto qui appresso una serie di link sperabilmente utili a farsene un’idea propria (secondo un andamento che in parte riprende la struttura della nota precedente).

  1. Due confessioni-interviste-dichiarazioni, molto sincere, del giugno 2016 e dell’aprile 2018.
  2. Gli apprezzamenti di Ernesto Ferrero («La Stampa», 11 settembre 2016) e di Alberto Asor Rosa («la Repubblica», 1 febbraio 2017), da punti di vista differenti, con un borbottio di Gianfranco Petrillo (primavera 2017).
  3. Le prime osservazioni critiche, di Paolo Nori («Il Post», 5 luglio 2016), seguito in parte da Mario Caramitti («il manifesto», 17 luglio 2016).
  4. L’adattamento e regia di Valter Malosti, con messa in scena di Irene Ivaldi, presso il Teatro di Dioniso a Torino nel 2017.

4

Cfr. p.es. Roberto Calasso, L’impronta dell’editore, Adelphi, Milano 2013, p. 123.

5

Questa (nuova, o meglio ‘aggiornata’) edizione einaudiana di Opere complete di Walter Banjamin consta di sette volumi, ognuno dei quali porta il titolo Scritti, seguito dagli anni specifici di composizione (da 1906-1922 fino a 1938-1940), più il volume iniziale, del 2000, I «passages» di Parigi e quello conclusivo, del 2014, di Frammenti e paralipomena, che per la loro natura ‘imperfetta’ esulano almeno in parte da quel criterio. Dunque dall’edizione Agamben, pubblicata nel decennio 1982-93, mancavano gli scritti dell’ultimo ventennio di vita di Benjamin. Le Gesammelte Schriften constano di sette volumi (suddivisi in più parti, per un totale di quattordici tomi), pubblicati dal 1972 al 1989 «in collaborazione con Theodor W. Adorno e Gerschom Scholem e a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser […] secondo criteri formali e di contenuto»; essi «hanno accettato, affiancati da Enrico Ganni, di curare anche quella [sc., l’edizione] italiana» (cito dall’Avvertenza editoriale dei «Passages» di Parigi, t. I, p. VII).

6

Su Bazlen si vedano altri dettagli biografici nella voce firmata nel 1988 da Aldo Grasso per il vol. 34 del Dizionario biografico degli italiani.

7

La differenza è che all’epoca (prima metà degli anni Sessanta) praticamente non c’erano edizioni davvero attendibili del filosofo tedesco, neanche in originale, mentre Einaudi decise di tradurre integralmente Benjamin soltanto una decina d’anni dopo l’avvio dell’edizione completa Suhrkamp (e non so se fu Agamben a proporlo o, al contrario, l’editore stesso incaricò il giovane e ambizioso studioso italiano – sta di fatto che l’uscita nel 1982 del primo tomo, Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, trad. di Claudio Colaiacomo, poi studioso leopardiano, tornò utile per alcuni dettagli della mia tesi di laurea; osservo che nel 2017 è stata ritradotta la sola “Dissertation” con cui Benjamin si laureò nel 1919, a ventisette anni: Il concetto di critica d’arte nel Romanticismo tedesco, Mimesis, a cura di Nicolò Pietro Cangini). Sui testi niciani ritengo ancora proficui i saggi con cui si apre e chiude la guida Nietzsche. Etica, Politica, Filologia, Musica, Teoria dell’interpretazione, Ontologia, curata da Maurizio Ferraris (Laterza 1999), che firma anche quei due contributi (il secondo con Pietro Kobau: “I. Vita, opere, fortuna”, pp. 3-51 e “VII. La questione dei testi”, pp. 277-303). Assai più recente, si veda anche questa recensione di Alfonso Berardinelli a un libro di Sossio Giametta, sodale e collaboratore di Collli e Montinari.

8

Anche questa informazione preziosa deriva dall’articolo di Gilodi.

La nuova Hebrew Bible di Robert Alter – ovvero, un ‘post’ natalizio

La notizia a cui allude il titolo, pubblicata sul Post.it del 25 dicembre 2018, aveva già avuto l’onore dell’intera prima pagina sul penultimo domenicale (16 dicembre 2018) del Sole 24 Ore, con un articolo firmato dall’anglista (ma che definirei meglio studioso di letterature comparate, per ciò che ha scritto più di recente) Piero Boitani, al quale rinvio pur non trovandolo in rete (chi lo volesse consultare me lo può chiedere in privato). Infatti lì, oltre a qualche esempio di traduzione, si trova qualche notizia in più sui libri pubblicati da Alter (e relative traduzioni in italiano, ove disponibili), che ha cominciato nel 1996 col Genesi e poi ci ha preso gusto, completando in ventidue anni un lavoro immane, certo per l’estensione, ma ben di più per il confronto inevitabile con interpretazioni che si snocciolano da duemila anni, anzi ben di più.

Strano che non siano stati fatti riferimenti al lavoro, in parte analogo, svolto da Henri Meschonnic [∗ 1932 — † 2009], di cui consiglio Un colpo di Bibbia nella filosofia (trad. di Riccardo Campi, Medusa 2005 – ma il francese si muoveva già da decenni sui testi biblici, come dimostra il suo Le Signe et le Poème. Essai, Gallimard 1975). Probabilmente ciò si spiega con una conoscenza scarsa, almeno in Italia, dello studioso e poeta francese, già sottolineata nell’introduzione di Emilio Mattioli al testo appena menzionato. Sulla sua rilevanza per gli studi che interessano qui cfr. comunque Céleste Boccuzzi e Marcella Leopizzi, Henri Meschonnic. Théoricien de la traduction (Hermann, Paris 2014). Da internet si può scaricare liberamente in PDF anche la tesi magistrale di Daniele Frescaroli, Poetica, ritmo e traduzione: l’avventura di Henri Meschonnic, discussa nell’anno accademico 2013-2014 presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali dell’università di Modena e Reggio Emilia (relatore: Franco Nasi).

Le indicazioni fornite sul Post.it però a mio modesto avviso andrebbero corrette, o almeno attenuate, in un paio di punti.

  1. Alter sarebbe  «la prima persona ad aver tradotto interamente da solo in inglese la Bibbia ebraica dall’originale in ebraico e aramaico». Il riferimento (fornito al capoverso successivo) è alla cosiddetta KJV, ovvero Authorized Version, cioè la traduzione promossa da re Giacomo I Stuart e pubblicata nel 1611, NOTA 1 ma andrebbe detto chiaramente che Lutero si era cimentato nel lavoro quasi un secolo prima, forgiando sostanzialmente quello che poi sarà la base del tedesco letterario. Che si fosse servito dell’ausilio di altri studiosi è innegabile (Melantone è il primo che viene in mente, anche se in seguito si avvicinò a posizioni erasmiane e calviniste), ma il merito resta comunque saldamente nelle sue mani. E negli stessi anni il protestante italiano Giovanni Diodati (amico di Paolo Sarpi, di cui tradurrà in francese nel 1621 la nota Istoria del Concilio tridentino, uscita in italiano appena due anni prima e subito messa al bando) si accingerà a un’impresa analoga, producendo in italiano (dapprima nel 1607 e poi, in un’edizione ampiamente rivista e perfezionata, nel 1641, da cui poi trasse la versione francese nel 1644) un’opera che andrebbe inserita o perlomeno menzionata anche nelle antologie scolastiche.NOTA 2 Soprattutto per contrasto alla tenace opposizione della Chiesa cattolica a qualsiasi versione in lingua volgare del testo sacro rispetto alla Vulgata geronimiana fino al 1757, allorché Benedetto XIV diede l’assenso per quella che poi uscì, tratta dalla Vulgata a opera del vescovo fiorentino Antonio Martini, in 28 volumi  a Torino tra il 1769-71 (Nuovo Testamento) e il 1776-91 (Antico Testamento), conoscendo ben 48 edizioni successive. NOTA 3
  2. Alter (nomen omen verrebbe proprio da dire…) era già abbastanza noto, almeno a chi si interessa di questi argomenti, per la sua teoria «che una mente creativa avesse messo insieme e unificato accozzaglie di testi e storie precedenti, dandogli una coerenza artistica e narrativa. Alter definì questa figura “l’Arrangiatore”, immaginandolo come l’operatore del montaggio di un film» (così commenta Boitani). Molto ‘ammerikano’, direi, e in un’ottica di avvicinamento e svecchiamento potrebbe essere pure una posizione simpatica. Non ho letto nessuno studio di Alter, ma a qualunque studente (bravino, non dico tanto) di liceo classico non può non venire in  mente che questa è la trasposizione, a un testo forse più importante, del lunghissimo dibattito sulla questione omerica. Cioè, «se in ultima analisi i poemi, così come sono, siano il risultato di un lavoro successivo di più mani o della definitiva composizione a opera di uno solo, sulla base di materiale precedente, e i problemi riguardanti la persona di questo compositore e i limiti del suo apporto», come si legge nella sezione specifica della voce Omero della Treccani on-line, dove poco sotto si riporta l’epiteto di Bearbeiter proposto da Kirchhoff e ripreso da Wilamowitz per riferirsi all’autore dei due grandi poemi greci. Che è, mi pare, all’origine dell'”Arrangiatore” di Alter.

La copertina della ricca edizione italiana di Ta meth’Homeron, che racconta com’è andata veramente a finire la guerra di Troia… certo non ne fu autore Omero.

Come ‘smascherare’ un classico alla base della cultura occidentale… neanche questo può essere omerico!

Invece per quanto riguarda il Sole 24 Ore, un colonnino nella medesima prima pagina rammenta l’edizione della Bibbia commentata dai padri, tradotta da Città Nuova. Si tratta di un progetto nato negli Stati Uniti a cura di «un’équipe internazionale ed ecumenica di specialisti in patrologia» in 25 volumi e 29 tomi (quasi equamente ripartiti fra Antico e Nuovo testamento) che in italiano si concluderà nel 2019 e «raccoglie e traduce dalle lingue greca, latina, copta, siriaca, armena, testi spesso non facilmente accessibili». L’unico ‘neo’ è però il costo medio, superiore ai 50 euro, ma in qualche caso si avvicina persino alle 90 sterline dei tre tomi che compongono la traduzione integrale di Alter. Per dire: se dovessi spenderci un po’ di soldi, allora preferirei comprare questa nuova traduzione.

Di livello specialistico comparabile, ma con costi dimezzati, è la doppia collana, oggi pubblicata congiuntamente dagli editori Claudiana di Torino e Paideia di Brescia (che da sola avviò l’impresa nel 1994): “Introduzione allo studio della Bibbia” (11 tomi) e i “Supplementi alla Introduzione allo studio della Bibbia” (75 tomi).

Ovviamente col tempo alcuni testi sono stati superati: è il caso, per esempio, della Settanta (LXX), cioè la traduzione in greco dei primi cinque libri (il c.d. Pentateuco) dell’Antico Testamento da parte di settantadue saggi, sei per ognuna delle tribù di Israele, che in appena settantadue giorni (un ‘vero’ miracolo…!) produssero tutti la medesima versione. Così, lo stesso autore che aveva redatto il volume a riguardo per i succitati “Supplementi”, Natalio Fernández Marcos, ne ha pubblicato poi una versione aggiornata in spagnolo nel 2008, tradotta da Giulio Colombi per Morcelliana (altro editore specializzato in testi religiosi, con sede a Brescia) nel 2010: Septuaginta. La Bibbia di ebrei e cristiani, a cura di Flavio Della Vecchia.NOTA 4

Per chi avesse interessi più spiccatamente linguistico-traduttivi, suggerisco la collana “Doppio verso” delle Edizioni Dehoniane di Bologna, curata da Roberto Reggi. Ogni tomo ospita uno dei libri biblici, nella versione originaria ebraica e greca, con traduzione interlineare in italiano e accompagnato dal testo della CEI (nell’edizione del 2008, quella canonica in Italia) più le singole introduzioni e note presenti nella diffusa Bibbia di Gerusalemme.

Immagino però che non tutti possano avere il tempo o la voglia di scendere così in profondità. Ecco quindi un ventaglio di testi più accessibili, non solamente nel prezzo (in ordine alfabetico per autore – ringrazio per i suggerimenti Luigi Walt, alla cui produzione è riservata la parte conclusiva di questo post, perché gli ultimi saranno i primi…):

  • Antonio Autiero, Marinella Perroni (a cura di), La Bibbia nella storia d’Europa. Dalle divisioni all’incontro (Dehoniane, Bologna 2012 – il cui primo saggio è una bella chiacchierata-intervista della curatrice col mio maestro, Tullio De Mauro, dal titolo impegnativo “Bibbia e Occidente” (alle pp. 13-23), ma ospita anche un saggio su “Gutenberg, Erasmo e Lutero” (di Lothar Vogel) e un intervento di Gigliola Fragnito (vedi approfondimento alla nota 2), in cui soppesa le questioni relative a “diffusione e interdizione” del testo sacro.
  • Emanuela Buccioni, La traduzione e le traduzioni. Incontrare e trasmettere la parola di Dio nelle diverse parole dell’uomo (Editrice Domenicana Italiana, Napoli 2018)

Il retro di copertina del volume scritto da Emanuela Buccioni

  • Carlo Buzzetti, Traduzione e tradizione. La via dell’uso-confronto: oltre il biblico traduttore-traditore (Messaggero, Padova 2001)
  • Bruno Corsani, in collaborazione con Carlo Buzzetti, Girolamo De Luca, Giorgio Massi, Guida allo studio del greco del Nuovo Testamento (Società biblica britannica e forestiera, Roma 2000 e numerose ristampe con ampliamenti e correzioni)
  • Adriana Destro, Mauro Pesce, Antropologia delle origini cristiane (Laterza 1995, riedizione 2008)
  • Bart D. Ehrman, La Bibbia. L’Antico e il Nuovo Testamento (trad. e cura di di Matteo Grosso; Carocci 2018),
    anche in due tomi distinti:
    L’Antico Testamento. Un’introduzione (Carocci 2018)
    e Il Nuovo Testamento. Un’introduzione (Carocci 2015, ristampa 2018)

Su internet si trovano vari filmati in cui Ehrman espone le sue posizioni sulla Bibbia

  • Bart D. Ehrman, Prima dei vangeli. Come i primi cristiani hanno ricordato, manipolato e inventato le storie su Gesù (trad. di Matteo Grosso; Carocci 2017)
  • Bart D. Ehrman, Sotto falso nome. Verità e menzogna nella letteratura cristiana antica (trad. di Gian Carlo Brioschi, Carocci 2012, ristampa 2018)
  • Israel Finkelstein, Neil Asher Silberman, Le tracce di Mosè. La Bibbia tra storia e mito (trad. di Dora Bertucci; Carocci 2002, 2ª ristampa 2018)
  • Northrop Frye, Il grande Codice. La Bibbia e la letteratura (trad. di Giovanni Rizzoni, Einaudi, nuova ed. a cura di Piero Boitani, 2018 – ed. or. 1982)
  • Northrop Frye, Il potere delle parole. Nuovi studi su Bibbia e letteratura (trad. di Eleonora Zoratti, La Nuova Italia 1994 – ed. or. 1990)
  • Sonia Gentili, Novecento scritturale. La letteratura italiana e la Bibbia (Carocci 2016)
  • Norman Gobetti, Un cammello per la cruna di un ago. La lunga e avventurosa storia delle traduzioni bibliche italiane, nel n° 11 (2016) della rivista tradurre.it – lo segnalo, pur non essendo un volume, perché mi è parso molto chiaro, senza rinunziare a fornire una serie di supporti bibliografici e cronologici dopo il testo
  • Riccardo Maisano, Filologia del Nuovo Testamento. La tradizione e la trasmissione dei testi (Carocci 2014, ristampa 2017)
  • Paolo Merlo (a cura di), L’Antico Testamento. Introduzione storico-letteraria (Carocci 2018)
  • André Paul, La Bibbia e l’Occidente. Dalla biblioteca di Alessandria alla cultura europea (trad. di Paolo Caena, Paideia/Claudiana 2009, ed. or. francese 2007) – si tratta di uno studioso importante, autore ad esempio di uno dei volumi meno esosi (non che sia un criterio pertinente, beninteso, ma vale anche per il titolo succitato) sui manoscritti rinvenuti nel 1947 in alcune caverne nel deserto vicino al Mar Morto. La scoperta casuale ha scardinato idee secolari sui testi sacri e per la grande risonanza si è creata un suo spazio editoriale anche da noi, ma non potendo dedicarle qui uno spazio a sé, dirò sbrigativamente di cercare titoli che contengano i toponimi Nag Hammadi e/o Qumran.
  • S. Pisano, Introduzione alla critica testuale dell’Antico e del Nuovo Testamento (4ª ed; Pontificio Istituto Biblico, Roma 2005)
  • Gian Luigi Prato, Gli inizi e la storia. Le origini della civiltà nei testi biblici (Carocci 2013)
  • Giovanni Rizzi, Le antiche versioni della Bibbia. Traduzioni, tradizioni e interpretazioni (San Paolo 2009)
  • Beryl Smalley, Lo studio della Bibbia nel Medioevo (trad. di Vincenzo Benassi, terza ed. a cura di Gian Luca Podestà; EDB/Dehoniane, Bologna 2008 – ed. or. 1952 e 1983)
  • Gerd Theissen, Il Nuovo Testamento (trad. di Aldo Paolo Bottino, a cura di Giovanni Maria Vian; Carocci 2003, 3ª ristampa 2010)
  • P. Wegner, Guida alla critica testuale della Bibbia. Storia, metodi e risultati (San Paolo 2009)
  • Mi piace chiudere questa lista non con un ennesimo autore, ma citando l’iniziativa editoriale Qiqajon (sede a Magnano, in provincia di Biella, sin dalla sua origine nel 1983) e promossa dalla comunità di monaci residente a Bose, fondata da Enzo Bianchi. Ecco la maniera irresistibile con cui il priore ne spiegava il significato cinque anni fa: «Abbiamo cominciato non sapendo se la casa editrice sarebbe durata o no; ed è per questo che io volli come nome questo termine ebraico […] qiqajon designa quell’alberello che Dio ha fatto crescere sulla testa di Giona e che poi ha fatto seccare a metà del giorno. Un albero che è cresciuto, è durato alcune ore, è seccato […]. Facciamo una cosa che dura poco, può anche morire presto ma teniamola lo stesso».

Ho lasciato davvero per ultimo Luigi Walt (anche se non lo sarebbe in ordine di importanza, dato che insegna a Ratisbona), che ho avuto la fortuna di conoscere personalmente (sia pure solamente per e-mail) e si è rivelato una persona squisita. Abbiamo scoperto di avere anche qualcosa indirettamente in comune, nelle nostre trascorse attività, e sicuramente è un ricercatore di prim’ordine, specialista delle lettere di san Paolo, ritenute dalla maggioranza degli studiosi i documenti cristiani più antichi (forzando un po’ i termini della questione per far capire quale sia il rilievo della posta in gioco in questo tipo di discussioni, si potrebbe dire: più prossimi al messaggio ‘originale’ di Cristo): lo ha argomentato nelle oltre cinquecento pagine della sua monografia su Paolo e le parole di Gesù (Morcelliana 2013).
Tra 2019 e 2020 dovrebbero apparire tre suoi nuovi lavori: su “san Paolo traduttore”, sul sesto libro di Ezra, nonché la curatela di alcuni saggi di Jonathan Z. Smith.

La sede da cui ho tratto i tre link nel capoverso precedente è il suo blog, intitolato scherzosamente “Paulus 2.0”, che Luigi ha curato fin verso la metà del 2018, tanto è vero che da allora porta come sottotitolo (un po’ malinconico) “Bollettino (a riposo) di studi e ricerche sul cristianesimo delle origini”, mentre in precedenza era noto come “Lettere paoline” (punto net). Tuttavia la struttura molto articolata (cioè, pensata molto bene) lo rende a mio modesto avviso un luogo ancora fruibile con giovamento, soprattutto per chi non è così addentro alle questioni ivi dibattute (e probabilmente era questo uno dei sensi a cui rispondeva l’esigenza di mantenere in vita quel blog). Ad esempio, nella sezione Ex libris sono indicati volumi pubblicati da colleghi (fino al 2013).
Tutte le sezioni si cliccano dalla barra superiore, appena sotto l’intestazione di “Paulus 2.0”.
I “Percorsi di lettura” aprono link, tra gli altri, alla documentazione sul tema Cristianesimo e dintorni; o a un’ampia serie di testi recensiti o segnalati nello Scaffale aperto sul medesimo sito; o una messe di «articoli di approfondimento, estratti e opere di consultazione […] in pdf», cliccando su Area Download.
Ma fondamentale vi si staglia tuttora la pagina Per conoscere Paolo (di Tarso), dove trovate tanti collegamenti (i quali contengono quasi sempre altri link, a matrioska o scatole cinesi), strutturati in senso verticale per “Materiali introduttivi”, “Approfondimenti e letture”, “Conversazioni” (appena tre: con Romano Penna, Alessandro Barban e Anselm Grün) e “A immagine di Paolo”, per l’ambito iconologico e genericamente storico-artistico.
Altre sezioni che invito a ‘sprizzare’ sono:

  • il “Progetto EC“, che «raccoglie alcune voci dell’Enciclopedia Cattolica (1948-1954) di argomento storico-religioso», prive solamente della parte bibliografica (in quanto largamente obsoleta);
  • le Risorse online, ripartite in otto categorie ben distinte che celano tesori quasi insospettabili;
  • il Sillabario, con «materiali di carattere didattico, schede informative, brani antologici e brevi interventi polemici» ordinati alfabeticamente;
  • e infine le «pagine extravaganti” del Verbarium, che non è stato sviluppato a sufficienza.
  • Sulla destra di tutte le pagine sfilano, in verticale, tre sezioni, anch’esse di golosa consultazione: Collegamenti, Letture, Altri siti e blog (dove Luigi ha avuto la cortesia di inserire in extremis anche questo del sottoscritto).

NOTE

NOTA 1 – Si tratta della Bibbia probabilmente più nota e adoperata nel mondo anglosassone, ma la cui storicità è oggi acclarata: «[…] la “Bibbia di re Giacomo” è piena di passi ricavati da un testo greco derivato in ultima analisi dall’edizione di Erasmo da Rotterdam, edizione basata su un unico manoscritto del XII secolo che è uno dei peggiori fra quelli oggi disponibili. […] un testo greco lacunoso». Bart D. Ehrman, Gesù non l’ha mai detto, trad. di Francesca Gimelli, Mondadori 2007, p. 241 (ed. or. Misquoting Jesus, Harper Collins 2005). Per un esteso aggiornamento cfr. David Parker, Il testo del Nuovo Testamento: i manoscritti, le varianti e le moderne edizioni critiche, in «Ecdotica», 4 (2007): 7-23. Clicca qui per tornare su, da dove sei partito

NOTA 2 – Sulle implicazioni profonde di tutto ciò sono sempre estremamente raccomandabili i due lavori di Gigliola Fragnito: La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura (1471-1605), il Mulino 1997 e Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna, il Mulino 2005, a cui ora si può accostare Franco Pierno, La Parola in fuga. Lingua italiana ed esilio religioso nel Cinquecento, Edizioni di Storia e Letteratura 2018. Per una sintesi densa, ma rispettosa dell’ortodossia, cfr. Giovanni Rizzi, Le versioni italiane della Bibbia. Dalla Bibbia del Malermi (1471) alla recente versione CEI (2008), San Paolo, Cinisello Balsamo 2010 e il più dettagliato Mario Cimosa con la collaborazione di Carlo Buzzetti, Guida allo studio della Bibbia latina. Dalla vetus latina, alla vulgata, alla nova vulgata, Istituto patristico Augustinianum, Roma 2008. Molto interessante soprattutto perché copre anche tutte le aree geografiche, Philip A. Noss (a cura di), A History of Bible Translations, Edizioni di Storia e Letteratura 2007 (che recensî estesamente nel numero dell’inverno 2009 su «La figura nel tappeto», la rivista curata da Alessandro Gebbia e Fiorella Gabizon, alle pp. 241-252). Clicca qui per tornare su, da dove sei partito

NOTA 3 – Su questo si vedano gli atti di un convegno tenuto all’Università di Roma “La Sapienza” nel novembre 2010 con T. De Mauro, T. Gregory, S. Quinzio, M. Luzi, F. Gabrieli e molti specialisti: Gian Gabriele Vertova (a cura di), Bibbia, cultura, scuola. Alla scoperta di percorsi didattici interdisciplinari (Carocci 2011). Clicca qui per tornare su, da dove sei partito

NOTA 4 – Luciano Canfora ha scritto pagine molto intense sulla Septuaginta, la cui vicenda è tramandata anzitutto dalla cosiddetta Lettera di Aristea a Filocrate, un testo anonimo del II secolo a.C. redatto da un autore ebreo che vuole apparire greco, probabilmente appartenente alla diaspora alessandrina, la seconda dopo quella assiro-babilonese, che portò i giudei a trasferirsi in età ellenistica in varie città del Mediterraneo, ma soprattutto ad Alessandria d’Egitto, all’epoca un ‘crogiuolo di razze e culture’ sotto il regno dei Tolemei (al riguardo cfr. il buon manuale di Clara Kraus Reggiani, Storia della letteratura giudaico-ellenistica, Mimesis, Milano-Udine 2008). Esaminando con grande acume le diverse e complesse rielaborazioni (per le quali Canfora adopera schiettamente termini come ‘riscritture’ e ‘manipolazioni’) della Lettera di Aristea nei secoli successivi, il grande filologo classico barese ha fornito soprattutto ne Il viaggio di Aristea (Laterza 1996) un’esemplificazione magistrale di ‘storia della ricezione’. Difatti egli non ha solamente chiarito la separazione fra l’ortodossia ebraica (che rifiutò la miracolosa/miracolistica trasposizione dei settantadue saggi a favore di altre traduzioni in greco) e le comunità greche, che invece l’accettarono, ponendola sotto l’egida dell’élite dirigenziale locale (il reggitore della Biblioteca di Alessandria, Demetrio Falereo, che operava in accordo con il secondo sovrano della dinastia, Tolomeo Filadelfo [285-246 a.C.]) e, con questo atto ideologico-culturale, l’inserirono di forza nel novero delle opere con cui poi si sarebbero confrontati in epoca tardo-antica e con orientamento cristiano sia Agostino sia Gerolamo, operando assimilazioni e distinzioni. Il merito di Canfora è anche quello di aver dimostrato che «la Lettera di Aristea assurge al ruolo di libro-simbolo della dottrina vertente su biblioteche e raccolte di libri, su biblioteche perdute o auspicate» (p. IX) in una storia avvincente che passando attraverso la cultura bizantina, araba e Petrarca, arriva fino alle posizioni protestanti di Spinoza (tornato in auge grazie agli studi accurati di Steven Nadler, quasi tutti tradotti anche in italiano), Richard Simon, Fabricius, Reimarus, Lessing. Clicca qui per tornare su, da dove sei partito

Il ritorno dei volgarizzamenti

Sbaglio, o c’è un rinnovato interesse per il volgarizzare, un’attività affine alle traduzioni ma che spesso gode di fama infima (se mai possibile…)?

La copertina di Cesare Segre, Volgarizzamenti del Due e Trecento (Utet 1953), appena comperato

In realtà già Segre, all’inizio degli anni Cinquanta, apriva un suo saggio capitale affermando che il volgarizzamento è una «situazione mentale prima ancora che attività specifica» e che occorre pertanto considerare tale attività «invece che una precedenza, un ideale parallelismo con le altre espressioni del pensiero letterario».NOTA 1
Folena, riprendendo queste argomentazioni, appaia il volgarizzare al traslatare (in opposizione alla interpretatio orale, solitamente riservata a una «comunicazione a tre», dotata cioè di un intermediario/ἑρμηνεύϛ < Hermes/Ermete, o comunque di «un commutatore dei due codici rispettivi» – dove già si coglie la simbiosi originaria fra latino e greco, di contro a «lingue appartenenti a civiltà lontane» e perciò ‘barbare’, «inferiori e inintelligibili»), che è un fenomeno da (ri)collocare «all’inizio di nuove tradizioni di lingua scritta e letteraria»: e dunque «quasi tutto quello che ci è giunto di documenti e monumenti delle origini è in sostanza traduzione, sia che l’originale esista e ci sia noto, […] sia che si tratti soltanto di un modello mentale facilmente ricostruibile».NOTA 2
In questa chiave va letta una ricca messe di altri studi, di cui riporto qui solamente una minima parte, ma auspico che continui al ritmo elevato che ha assunto in questi ultimi anni:

  • Alison Cornish, “A New Life for Translation: Volgarizzamento after Humanism”, sesto e ultimo capitolo del suo volume Vernacular Translation in Dante’s Italy. Illiterate Literature (Cambridge UP 2010);

    La copertina di Cornish 2010

  • il corposo saggio di Giovanna Frosini sui “Volgarizzamenti” che apre il secondo volume della Storia dell’italiano scritto

    La copertina di Giuseppe Antonelli, Matteo Motolese, Lorenzo Tomasin (a cura di) 2014

  • Lino Leonardi e Speranza Cerullo (a cura di), Tradurre dal latino nel Medioevo italiano. «Translatio studii» e procedure linguistiche (SISMEL-Edizioni del Galluzzo 2017, atti del convegno organizzato a Firenze dalla Fondazione Ezio Franceschini il 16 e 17 dicembre 2014);

    La copertina di Leonardi, Cerullo (a cura di) 2017

  • sempre Leonardi è il coordinatore di BIBITA, “I volgarizzamenti italiani della Bibbia”, pure ospitato sul sito della Fondazione Franceschini e che ha prodotto 6 lavori tra il 1993 e il 2013 (fino al 1998 con il concorso dell’École Française de Rome);
  • Roman Sosnowski e Giulio Vaccaro (a cura di), Volgarizzamenti: il futuro del passato (Cesati 2018);

    La copertina di Sosnowski e Vaccaro (a cura di) 2018

  • il convegno “Volgarizzare e tradurre in Italia nei secoli XIII-XV. Problemi e metodi editoriali”, coordinato da Corrado Bologna e Claudio Ciociola i giorni 22-23 maggio 2017 a Pisa;
  • il convegno internazionale “Storia sacra e profana nei volgarizzamenti medievali. Rilievi di lingua e di cultura”, promosso a Milano nei giorni 25 e 26 ottobre 2017 dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dall’ateneo di Verona;
  • il convegno “Toscana bilingue (1260-1430). Per una storia sociale del tradurre medievale” (organizzato dal Dipartimento di Studi Umanistici dell’università veneziana di Ca’ Foscari e tenutosi a Dorsoduro dall’8 al 10 novembre appena conclusi).
  • Assolutamente fondamentale in (e per) questo nuovo, poderoso impulso il sito DiVo – Dizionario dei volgarizzamenti (ovviamente medievali), curato da Elisa Guadagnini e Giulio Vaccaro (dei quali si trovano sul web alcuni articoli molto promettenti) e tuttora in piena espansione, che si definisce «Pubblicazione periodica online [… ad] aggiornamento continuo».
  • Non trovo invece ancora nessuna conferma di un altro libro di Giulio Vaccaro, che sarebbe dovuto uscire entro il 2018 per l’editore ETS di Pisa, col titolo allettante Tradizione e fortuna dei volgarizzamenti italiani

AGGIORNAMENTO (lunedì 19 novembre 2018)

Trovo stamani sul sito di Spolia la segnalazione di un convegno internazionale, franco-italiano (cioè, in pratica organizzato dalle università di Pisa e Lione) che non avrebbe molto a che fare con i volgarizzamenti, a parte la prossimità cronologica.

Ritratto di Franco Sacchetti, autore della raccolta Trecentonovelle (fine sec. XIV), in apertura del programma del convegno internazionale

Mi riferisco a “En traduisant les Trecento novelle de Franco Sacchetti: De la langue à l’histoire” (questo link aprirà un PDF con il programma dettagliato dei lavori), tenutosi a Lione gli scorsi 8 e 9 novembre, con il curatore della recente edizione critica, Michelangelo Zaccarello (SISMEL-Edizioni del Galluzzo, Firenze, 2014).

 

NOTE

NOTA 1 – Le citazioni sono da C. Segre, Lingua, stile e società. Studi sulla storia della prosa italiana (Feltrinelli 1963, pp. 49 e 54, ma rinunzio ad esporre l’ampia trattazione, elaborata da un Segre appena ventisettenne!). Clicca qui per tornare su, da dove sei partito

NOTA 2 – Tutte le frasi virgolettate sono, ovviamente, dalle prime pagine di G. Folena, Volgarizzare e tradurre (Einaudi 1994, ma ed. or. 1973). Clicca qui per tornare su, da dove sei partito

Chi ben comincia il 2018…

Sono molto contento che il primo volume cartaceo a varcare la soglia di casa mia nel 2018 sia questo di Jürgen Trabant, sebbene quindici anni dopo la sua pubblicazione. Se non fosse chiaro, l’immagine che occhieggia dal ‘buco’ in copertina è quella di una torre di Babele (NOTA 1 ), metafora iniziale e archetipica nell’argomentazione dell’opera.

La copertina di Trabant 2003

Un aspetto assai apprezzabile è che in pratica l’ho pagato (su Amazon) la metà del prezzo riportato sul risvolto di copertina (edizione rilegata!), come a ben guardare si può ricavare anche da un’informazione sul sito dell’editore tedesco, anche se lo sconto dovrebbe applicarsi alla ristampa (?) del 2013.

A noi italiani dovrebbe interessare già solamente perché snocciola nei titoli dei 7 capitoli alcuni dei nostri luoghi più significativi per le humanities: Firenze, Bologna, Napoli… alle quali seguono anche Londra, Parigi, Riga, Tegel, Cambridge (sia quella nel Massachusetts, sia quella britannica), sino alla Foresta nera…
Aggiungo che, per un’altra di quelle ragioni insondabili e inspiegate, nessuno dei libri di Trabant qui menzionati figura nelle biblioteche pubbliche italiane, accessibili a partire dall’Opac SBN, ossia il Catalogo del servizio bibliotecario nazionale: quest’ultimo è attivo dal 1997 e permette di interrogare una vasta rete di «biblioteche statali, di enti locali, universitarie, scolastiche, di accademie ed istituzioni pubbliche e private operanti in diversi settori disciplinari». Del resto al centro della home page del portale ICCU (acronimo di Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche), dal quale dipende il suddetto Opac (On-line Public Access Catalog), fa bella mostra di sé l’affermazione seguente:

L’ICCU gestisce il catalogo online delle biblioteche italiane e il servizio di prestito interbibliotecario e fornitura documenti; cura i censimenti dei manoscritti e delle edizioni italiane del XVI secolo e delle biblioteche su scala nazionale; elabora standard e linee guida per la catalogazione e la digitalizzazione. Opera in stretta collaborazione con le Regioni e le Università al servizio delle biblioteche, dei bibliotecari e dei cittadini.

Avrei qualcosa da eccepire sul fatto che sia effettivamente «al servizio dei cittadini»; meglio passare al tema specifico di questo post.

Jürgen Trabant (dal sito juergen-trabant.de/)

Con Trabant ebbi a che fare indirettamente, quando Laterza affidò a Donatella Di Cesare la traduzione del suo libro su Vico, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico (fu pubblicato nel 1996, come n° 1092 della collana «Biblioteca di cultura moderna», in altri tempi gloriosa, corredato da una presentazione di Tullio De Mauro). In questa edizione italiana fu aggiunto un capitolo dal suo importante Traditionen Humboldts (Suhrkamp 1990 – stw, 877), l’ottavo: “Fantasia e favella. Osservazioni su Vico e Humboldt” (era alle pp. 140-168 dell’originale tedesco). Il libro vichiano uscì poi anche negli Stati Uniti nel 2004, non so in quale assetto, cioè se conforme nel sommario all’originale, all’edizione italiana, o in un’altra versione ancora – magari in ossequio al principio humboldtiano della virtuosa Verschiedenheit, su cui Trabant è tornato con molta chiarezza in uno dei suoi ultimi testi, Globalesisch, oder was? Ein Plädoyer für Europas Sprachen (Beck 2014). Una dozzina di pagine del libro si possono scaricare gratuitamente, per farsi un’idea di cosa parli, dal sito dell’editore.
Per chi non voglia farlo o non legga il tedesco, riporto l’opinione di fondo espressa da Trabant pochi anni prima:

[…] c’è voluto un bel po’ per far capire alla gente che imparare le lingue è una maniera meravigliosa di esperire cosa sia l’alterità culturale, un’avventura dello spirito, e che non può certo far male alla testa sapere un’altra lingua, o (meglio) anche più d’una. Di questo però ne è convinta solamente la parte dell’umanità che non parla inglese, mentre dal canto loro gli anglofoni rinunziano a questo allenamento mentale [traduzione all’impronta e abbastanza libera del sottoscritto, da Was ist Sprache?, Beck 2008, p. 153].

Sul Globalesisch di Trabant è intervenuto anche Tullio De Mauro nella premessa al suo coevo libretto In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia? (Laterza 2014). Aggiungo che Mehrsprachiges Europa / Europa plurilingue / L’Europe plurilingue è il titolo di un dibattito al riguardo tra loro e con Barbara Cassin, Sara Fortuna, Manuele Gragnolati, Luigi Reitani e Rossella Saetta-Cottone, che si è svolto la sera del 23 febbraio 2016 all’ICI di Berlino e ancora fruibile in rete.
Ricordo pure che Trabant ha curato un’antologia di Wilhelm von Humboldt: Das große Lesebuch (Fischer 2010), per poi sintetizzare le proprie idee su di lui nel denso volume Weltansichten. Wilhelm von Humboldts Sprachprojekt (Beck 2012). Qualche altro riferimento l’ho inserito nella NOTA 2.

Il libro curato da Trabant nel 1995, con un saggio di Donatella Di Cesare

Quasi certamente per ringraziarmi del supporto nella redazione di quel testo Donatella mi regalò, con breve dedica, un libro solamente curato da Trabant, al quale lei aveva contribuito con un lavoro teorico, interno al dibattito filosofico ed ermeneutico tipicamente germanico. Il volume si intitola Sprache denken. Positionen aktueller Sprachphilosophie (Fischer 1995, nella serie “Philosophie der Gegenwart” curata da Patrizia Nanz, che conobbi a Francoforte e il rapporto con la quale si esaurì dopo poco, data la scarsa ricettività laterziana alle proposte tedesche). Il saggio Di Cesare, in seconda posizione, è Über Sprachphilosophie und die Grenzen der Sprache e sta in buona compagnia, letteralmente ‘in mezzo’ ad autori noti anche da noi: infatti segue Sylvain Auroux, lì autore con Djamel Kouloughli (NOTA 3 ) di Für eine “richtige” Philosophie der Linguistik, ma precede Henri Meschonnic, che scrive Humboldt denken heute.

Con Donatella persi poi del tutto i contatti, salvo poi ritrovarla mediatamente nelle righe, ferme e autorevoli, che aprono l’edizione italiana di Eugenio Coseriu, Storia della filosofia del linguaggio (Carocci 2010), da lei stessa tradotto e soprattutto curato, essendone stata allieva a Tubinga una ventina d’anni prima. E non sarà un caso, allora, che il secondo libro entrato a casa quest’anno nuovo, acquistato on-line presso la Fondazione Campostrini di Verona, sia Eugenio Coseriu, Il linguaggio e l’uomo attuale. Saggi di filosofia del linguaggio (2007, a cura di Cristian Bota e Massimo Schiavi, con la collaborazione di Giuseppe Di Salvatore e Lidia Gasperoni, prefazione di Tullio De Mauro — il quale nella seconda delle poche pagine concessegli, scriveva: «Ora che anche Giancarlo Bolognesi se ne è andato, credo di essere il più vecchio testimone dei primi anni e dei ritorni di Coseriu in Italia, nei tardi anni Cinquanta» [p. 10]).

La Storia della filosofia del linguaggio è un’opera estremamente interessante di Coseriu (ma anche più in generale) e permette di intrecciare variamente gli studiosi qui menzionati. L’edizione originale tedesca, da cui proviene anche quella Carocci, aveva una premessa di Trabant, qui conservata (pp. 25-32) e istruttiva, ma anche lui è criticato dalla curatrice (v. p. 14). A quest’ultima bisogna comunque riconoscere il merito di avere messo in luce l’angolatura migliore per apprezzare quel testo, «che, a ben guardare, non è davvero una “storia”, ma è piuttosto una “filosofia del linguaggio”. […] E come tale va letta. […] è un grande dialogo con i filosofi […], per cercare una risposta alle sue {sc., di Coseriu} domande sul linguaggio. Ma anche per riconoscere ogni volta il suo debito. E che cosa si presta di più al fraintendimento in tempi come questi di appropriazione egocentrica, di boria e presunzione scientifica? L’habitus di Coseriu era esattamente l’opposto» (p. 15).
E ancora: «la filosofia del linguaggio è tutta la filosofia dal punto di vista del linguaggio […]. Il grande merito di Coseriu è stato quello di aver giustificato la domanda filosofica sul linguaggio» come distinta da quella storica e da quella scientifica (p. 17 – corsivi nell’originale). Ne consegue che, allo stesso modo, bisogna distinguere la filosofia del linguaggio dalla linguistica generale e dalla teoria del linguaggio, mentre ad esempio in Italia «un disprezzo per la dimensione filosofica, detestata o ignorata, può condurre e ha condotto [..] ad una confusione tra filosofia del linguaggio e linguistica». «La domanda filosofica mira ad andare sempre oltre, mette in dubbio ciò che linguistica generale e teoria del linguaggio accettano tacitamente, comincia là dove queste finiscono. Ma a ben guardare le precede, dato che solleva a problema filosofico il “fondamento” del linguaggio che linguistica generale e teoria del linguaggio si limitano ad assumere. Queste ultime si basano dunque sulla filosofia del linguaggio, la presuppongono. La domanda filosofica sul linguaggio è così la domanda sul “senso dell’essere del linguaggio”» (p. 18).
Ho l’impressione che questa vena polemica sia stata generata probabilmente dall’intreccio fra dolorosi vissuti personali e duri sfondi storici sovraindividuali, più o meno aggiornati.
Ma al di là di tali considerazioni, queste stesse righe mi hanno fatto intuire che l’obiettivo da perseguire in una riflessione ‘alta’ sulla traduzione sia far capire (anche se non mi è ancora ben chiaro come) l’importanza, anzi di più: l’imprescindibilità, direi quasi la consustanzialità di quella attività, sfuggente, eppure analoga a «quell’estraniamento talmente quotidiano, da apparirci quasi ovvio, senza il quale non potremmo esistere» che è il linguaggio (cito sempre dall’introduzione di Di Cesare, pp. 16-17).
L’attività traduttiva, riprendendone la foggia, ossia quasi (ma non del tutto) modellata dalla lingua, duplica quella (e la nostra competenza linguistica, in senso lato), appoggiandovisi e sopravanzandola, e perciò appare ancora più difficile separarnela, scinderla dagli usi che abbiamo e facciamo della lingua.
Dovrò tornarci, forse Trabant e Coseriu sapranno fornirmi spunti illuminanti.

Concludo segnalando il sito dedicato a Eugenio Coseriu, dal quale si possono ricavare informazioni su di lui e scaricare praticamente quasi tutti i suoi saggi: http://www.romling.uni-tuebingen.de/coseriu/

Eugenio Coseriu (dal sito http://www.coseriu.de/)

N O T E

NOTA 1 – Nella fattispecie si tratta di un quadro dipinto nel 1602 da Roelant Savery e attualmente al Museo nazionale tedesco di Norimberga. Clicca qui per tornare al testo
NOTA 2 – L’argomento era affrontato in un’interessante ottica comparativa da un altro linguista (francese) in un bel volume, uscito nel 1995 come numero 19 della collana che accompagnava la rivista diretta da Raffaele Simone dal 1986 al 2003, «Italiano e oltre» {notizia dell’ultim’ora: dovrebbe essere disponibile tutta on-line a breve}: Claude Hagège, Storie e destini delle lingue d’Europa. Mi piace immaginare che, come De Mauro aveva affidato la prima traduzione di “sette studi” di Coseriu al suo giovane neolaureato Raffaele Simone (Teora del linguaggio e linguistica generale, Laterza 1971), così la storia si sia ripetuta nella generazione successiva: difatti fu un allievo di Simone, Edoardo Lombardi Vallauri, oggi ordinario di Linguistica generale a Roma 3, a tradurre la seconda edizione del 1994 del testo di Hagège (l’originale è del 1992 – con un titolo francese più evocativo del nostro: Le souffle de la langue). L’edizione italiana era corredata da una Presentazione (pp. IX-XV) di Alberto A. Sobrero, che poco prima aveva raccordato in maniera eccellente da curatore 17 fra i migliori linguisti (quasi tutti italiani) nei due importanti volumi della Introduzione all’italiano contemporaneo, intitolati rispettivamente Le strutture e La variazione e gli usi (Laterza 1993). Clicca qui per tornare al testo
NOTA 3 – Auroux scrisse con Kouloughli e Jacques Deschamps La filosofia del linguaggio (trad. it. di Ilaria Tani, Editori Riuniti, Roma 1998). Clicca qui per tornare al testo

Post aggiornato tra domenica 21 e martedì 23 gennaio 2018.

La scuola di Nitra (e molto altro)

Cominciò con una domanda, apparentemente generica, su una lista di discussione. In realtà risultò ben mirata, perché mi fece rendere conto quasi subito di non saper trovare assolutamente nulla sull’argomento Nitra school – nonostante i libri ben impilati sugli scaffali e qualche altro chiletto di fotocopie impolverate (ricettacolo di temibilissimi pesciolini d’argento).
Ed è finito con un convegno proprio a Nitra, organizzato presso l’università statale di Costantino il Filosofo [1] (così chiamata dal 1996, dopo esser stata fondata quattro anni prima a partire da un istituto pedagogico esistente dal 1959) dal locale Dipartimento di studi traduttivi (posso tradurre così ‘Translation Studies’?), dall’Istituto di letterature mondiali dell’Accademia slovacca delle scienze e dal CETRA, il Centro di studi traduttivi di Lovanio.
Una joint venture inedita e (anche per questo) interessante, rispecchiata pure dal titolo assegnato all’intera manifestazione: Some Holmes and Popovič in All of Us?, che Bruno Osimo mima nel suo intervento, fissato per le 14,30 di oggi (giovedì 8 ottobre, nella sessione 1): Any Holmes and Popovič in any of us Italians?

Il logo del convegno slovacco.

Il logo del convegno slovacco.

Tutti gli altri relatori col programma completo li trovate in un PDF di 8 pagine a questo link.
Andate invece sul sito ufficiale per ogni altra informazione, compresa la sponsorizzazione dell’editore Brill, che ha innestato un catalogo tipicamente accademico sulla lunga e nobile tradizione editoriale dei Paesi Bassi (sebbene oggi l’azienda abbia sede non più solo a Leida, ma anche a Boston e Tokyo).

 

Per chi non conosca bene Holmes e Popovič, dirò subito che condividono una morte prematura attorno alla metà degli anni Ottanta, la quale forse ha impedito loro di dispiegare tutte le implicazioni delle loro proposte, che però sono state accolte tempestivamente e in maniera estremamente positiva dalla comunità dei ricercatori interessati.

James Stratton Holmes (1924-1986) figura in quasi tutte le trattazioni di storia più recente della traduzione, nella cui ricostruzione ha assunto, grazie al saggio The Name and Nature of Translation Studies del 1972 (ma pubblicato tre anni più tardi), il ruolo di fondatore della corrente omonima: da un lato voleva opporsi sia all’impressionismo dell’approccio letterario, sia alle pretese di scientificità (ritenute eccessive) dell’approccio linguistico imperante, ma dall’altro ampliava le prospettive di studio e riflessione in una direzione che poi sarebbe stata ‘culturologica’. [2]
Un suo saggio del 1969 sulla traduzione poetica (La versificazione: le forme di traduzione e la traduzione delle forme, tradotto da Margherita Di Michiel) è incluso nell’antologia curata da Siri Neergard, Teorie contemporanee della traduzione (Bompiani 1995, 20022, pp. 239-256); che sia un contributo secondario rispetto al tema qui escusso lo dimostra, credo, il fatto che l’introduzione stessa della curatrice gli dedica una sola paginetta (p. 36), sebbene l’apporto di Holmes alle ‘grandi manovre’ della traduttologia sia comunque riconosciuto nelle note 3 e 17 da Neergard.

Anton Popovič (1933-1984) è invece l’esponente più noto (si fa per dire…) in Occidente della scuola slovacca di Nitra, ed è merito assoluto di Osimo la presenza sul mercato librario italiano del suo testo chiave, «un pilastro della scienza della traduzione»: Teória umeleckého prekladu (Bratislava 1975), che tradotta da Daniela Laudani, rivista da Osimo e collazionata sull’edizione sovietica seriore (Problemy chudožestvennogo perevoda, Moskva 1980) ha dato origine a La scienza della traduzione. Aspetti metodologici. La comunicazione traduttiva (Hoepli 2006), «la prima traduzione in una lingua al di qua della vecchia cortina di ferro». [3]
Opportunamente sia la traduttrice sia Laura Salmon [4] rammentano la collaborazione fra i due studiosi ed è ancora Osimo che affianca le loro schede nel suo Storia della traduzione. Riflessioni sul linguaggio traduttivo dall’antichità ai contemporanei (Hoepli 2002, pp. 212-5).

 

NOTE

[1]
Più noto come Cirillo, nome assunto a Roma con l’ordinamento monacale, poco prima di morire (una cappella dedicatagli a fine Ottocento nella straordinaria chiesa romana di san Clemente ospita le sue spoglie), lasciando al fratello Metodio il compito di proseguire l’evangelizzazione del mondo slavo. Una figura forse trascurata da chi non abbia familiarità con gli studi slavi, ma il cui valore apparento al visigoto Ulfila, o all’umanista Erasmo. Francis Conte lo definisce infatti «il primo grammatico degli Slavi […], linguista notevole per i tempi» (Gli Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, trad. di Ernesto Garino e Dario Formentin, Einaudi 1991, p. 438), ma soprattutto ricorda che «nell’opera di conversione degli Slavi occidentali all’ortodossia [… difese] la necessità delle lingue e delle liturgie nazionali» ribaltando abilmente l’accusa di eresia che gli muovevano le gerarchie tradizionali: essa non stava «nel tradurre il Verbo, bensì nell’impedire la comprensione della parola del Cristo respingendo le lingue nazionali» (p. 439), sicché ‘barbari’ diventavano coloro che privilegiavano unicamente latino e greco.
Secondo Emanuele Banfi i ‘santi fratelli’ «non solo inventarono, sul modello greco, un alfabeto (l’alfabeto glagolitico, ancora oggi usato in alcune chiese croate dell’Istria, base dell’alfabeto cirillico [che però è successivo – AdeL]) che potesse servire quale mezzo per la formazione di una scripta slava (in una fase linguistica in cui le lingue slave erano, tra l’altro, relativamente poco differenziate al loro interno) ma, soprattutto, forgiarono, a tavolino, una lingua, sostanzialmente artificiale, che potesse valere quale collante, quale elemento di identità, per la grande compagine del mondo slavo. [… cioè] l’invenzione del paleoslavo (o slavo ecclesiastico, o antico bulgaro), un sistema linguistico basato sulla varietà del dialetto slavo-macedone parlato dagli Slavi meridionali tessalonicensi e fortemente modellato, quanto a sintassi e lessico, sul greco bizantino-ecclesiastico» (Le coordinate per una storia linguistica del continente europeo: questioni teoriche e metodologiche, in Le radici prime dell’Europa. Gli intrecci genetici, linguistici, storici, a cura di Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti – Bruno Mondadori 2001, pp. 364-5).
Tale invenzione attecchì principalmente presso «le genti slavo-orientali (Russi, Ucraini, Bielorussi) e meridionali (Bulgari, Macedoni, Serbi), ovvero le componenti slave orientate verso Bisanzio; mentre le altre componenti, le slavo-occidentali (Polacchi, Cechi, Slovacchi) e due componenti slavo-meridionali (Sloveni, Croati) furono attratte nell’orbita romano-germanica e subirono, attraverso l’orientamento verso il cristianesimo romano/romano-germanico e il conseguente influsso del latino come lingua di cultura, un processo di progressiva occidentalizzazione, vistosamente segnato, tra l’altro, proprio dall’adozione dell’alfabeto latino (anche nella sua forma gotico-germanica)» (Banfi, p. 365).
E Conte rammenta che a forza di tradurre la Bibbia, libri liturgici greci, la patristica, il diritto bizantino e qualche testo ‘scientifico’ «i traduttori divennero i primi creatori delle lingue letterarie slave […] nel solco della tradizione bizantina. Fra i Serbi, i Bulgari e i Russi, le opere originali in lingua slava venute ad affiancarsi a traduzioni sempre più numerose consentirono lo sviluppo delle culture bizantino-slave all’insegna di un vero e proprio processo di filiazione» (Conte, p. 440). Anche per questo papa Woityła li nominò compatroni d’Europa nel 1980, insieme a Benedetto da Norcia, come si apprende su Wikipedia.
Per aggiornamenti e sparigliare un po’ il quadro, non senza una giusta vis polemica, aggiungo infine l’amico Luigi Marinelli, Fra Oriente europeo e Occidente slavo. Russia e Polonia (Lithos 2008).

Insomma, quell’area geolinguistica ci fa pensare a una situazione in un certo senso inversa a quella avvenuta nella Romània (di estensione pressoché equivalente) e che, entro certi limiti (se cioè si prende per buona la qualifica di ‘artificialità’ avanzata da Banfi), sembra mettere in crisi una certa concezione di lingua ‘dal basso’ – quella che, per capirci, vanificò tutti i tentativi descritti nel libro scritto da Eco per la collana ‘comunitaria’: La ricerca delle lingua perfetta nella cultura europea (Laterza 1993 – un testo che ebbi il piacere di redazionare, senza dovervi apportare nessuna correzione sostanziale, per mia fortuna, ma in fondo anche sua…).

[2]
È così per esempio nella prima pagina, la numero 11, della prima edizione di Paola Faini, Tradurre. Dalla teoria alla pratica (Carocci 2004 – ma tutta la Parte prima, che analizza lo sviluppo storico della disciplina, scomparirà nella «nuova edizione» del 2008: Tradurre. Manuale teorico e pratico).
Analogamente, ma in maniera più approfondita, esordisce il capitolo IX, a firma di Margherita Ulrych, La traduzione nella cultura anglosassone contemporanea: tendenze e prospettive, in Ead. (a cura di), Tradurre. Un approccio multidisciplinare (Utet 1997, pp. 213 ss. e cfr. specificamente il paragrafo 9.3.4.).
Si veda anche il capitolo 4 di Edwin Gentzler, Teorie della traduzione. Tendenze contemporanee, a cura di Margherita Ulrych, trad. di Maria Teresa Musacchio, Utet 1998 (ed. or. inglese 1993).
Jeremy Munday riproduce assai utilmente gli schemi in cui Holmes immaginava di articolare la disciplina, filtrati attraverso l’israeliano Toury (Manuale di studi sulla traduzione, trad. di Chiara Bucaria, Bononia UP 2012 – ed. or. inglese 2001, 20082: § 1.4, pp. 34-38).

[3]
Questa citazione, dalla «Nota della traduttrice», è a p. XXVI dell’edizione italiana citata; la precedente, di Osimo, a p. X ivi.

[4]
Nella prima nota all’Introduzione del suo Teoria della traduzione. Storia, scienza, professione (Vallardi 2003, p. 245).

Le «geschmuggelte Freundschaften» di Lavinia Mazzucchetti

Lavinia Mazzucchetti
Lavinia Mazzucchetti

Giovedì 29 gennaio 2015 la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori organizza a Milano un convegno sulla germanista Lavinia Mazzucchetti, dal titolo (a mio avviso un po’ troppo accademico e tutto sommato scarsamente perspicuo) Transfer culturale e impegno civile nell’Europa del Novecento (per gli amici in zona: sala Mario Monicelli, via Riccione 8). Sono passati infatti cinquanta anni dalla sua scomparsa.

Questa segnalazione è dettata da qualcosa che va persino oltre gli interessi personali, pur comprendendoli: un ramo dei miei antenati paterni riconduce infatti alla famiglia piemontese Mazzuc[c]hetti (in particolare Antonio e il figlio Alessandro, ingegnere che realizzò le stazioni ferroviarie di Alessandria, Torino Porta Nuova e Genova Porta Principe). Mi affretto ad aggiungere che non sono in grado di precisare il grado di parentela con Lavinia, la quale non era menzionata fra i parenti stretti quando ero piccolo; eppure so che da quando lessi il suo nome su qualche volume scolorito di letteratura tedesca, in biblioteca o sulle bancarelle (o forse era l’Erasmo di Zweig? neanch’io ricordo più quando possa esser avvenuto), rimasi folgorato, scattò una specie di corto circuito tra quel nome e il fatto che io stesso abbia studiato tedesco (non all’università ma presso il Goethe Institut) e sia in grado di tradurlo (spesso malamente…).

Su internet ho trovato senza difficoltà diversi materiali su di lei:
(#) la voce a lei dedicata da Maria Paola Arena sul Dizionario biografico degli italiani (vol. 72, 2008), ospitato su Treccani.it, risulta quella più ricca;
(#) si può integrare con la presentazione sul sito della Fondazione Mondadori, che ospita un fondo con moltissimi documenti scritti e iconografici, inserito nel progetto “Scrittrici e intellettuali del Novecento. Le carte d’archivio”, realizzato in partenariato con la Fondazione Elvira Badaracco e con il contributo della Fondazione Cariplo e inventariato su supporto informatico tramite l’applicativo Sesamo della Regione Lombardia, dichiarato di notevole interesse storico dalla Soprintendenza archivistica per la Lombardia;
(#) è sempre la Fondazione Mondadori che ha mandato in stampa quest’anno «Come il cavaliere sul lago di Costanza». Lavinia Mazzucchetti e la cultura tedesca in Italia, a cura di Anna Antonello (co-autori su aspetti particolari della vita professionale di Lavinia: Mario Rubino, Arturo Larcati, Michele Sisto, Massimo Bonifazio e Anna Lisa Cavazzuti); al link riportato se ne legge un’ampia presentazione, comprensiva dell’indice-sommario (e link per acquistarlo su un noto sito di e-commerce librario);
(#) informazioni più discorsive si reperiscono ad esempio sul sito Milanofree.it;
(#) invece la pagina italiana di Wikipedia è scarna, ma con un elenco analitico (e tendenzialmente esaustivo) dei testi da lei scritti e di quelli da lei tradotti;
(#) in compenso vedo segnalato addirittura un interessante articolo di Maria Pia Casalena pubblicato nel 2007 sulla rivista Genesis, VI/1, e intitolato Contrabbandiera di cultura. Lavinia Mazzucchetti e la letteratura tedesca tra le due guerre (scaricabile a pagamento).

Al convegno tuttavia non parteciperò. Cliccando qui se ne può consultare liberamente il programma con una dozzina di relatori, fra i quali segnalo la presenza di Natascia Barrale, autrice nel 2012 di una preziosa monografia sulle traduzioni di narrativa tedesca durante il fascismo in cui Lavinia ha una parte di rilievo. Per capire meglio il titolo che ho dato a questo post, infine, si può leggere questo saggio del 2012 di Elisabetta Mazzetti, proveniente anch’esso dalla Fondazione Mondadori.

AGGIORNAMENTO – 7 MAGGIO 2015
Gianfranco Petrillo informa sull’andamento del convegno nel numero 8 della rivista on-line tradurre, all’interno della sezione “Strumenti”.

AGGIORNAMENTO BIS – 11 LUGLIO 2019
Michele Sisto e Anna Antonello, autori già presenti fra quelli della Fondazione Mondadori, hanno curato l’anno scorso il volume: Lavinia Mazzucchetti. Impegno civile e mediazione culturale nell’Europa del Novecento (Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2018).

Una bella immagine di Lavinia Mazzucchetti, dalla copertina del libro citato

AGGIORNAMENTO TER – 4 NOVEMBRE 2023

Dopo aver letto la nota biografica sulla traduttrice (con riferimenti bibliografici in calce) resa disponibile sempre dalla medesima Fondazione, posso finalmente escludere una parentela diretta con quel ramo familiare: oltre ad avere il cognome scritto con 2 ‘Z’, era di Milano, mentre quello a cui appartengo io è sempre stato piemontese (Biella e Torino, in particolare).

Con l’occasione, inserisco qualche altro articolo che aggiungono altre informazioni a quelle già fornite qui sopra:

  • Magda Crepas, La Medusa tedesca. Lavinia Mazzucchetti e Mondadori, pubblicato su Comma 22 nel 0000;
  • la recensione, a firma di Marco Meriggi, di Elisabetta Mazzetti, Thomas Mann und die Italiener (Peter Lang, Frankfurt am Main, 2009; 367 pp., €56,80) sul sito della Società italiana per lo studio della storia contemporanea (SISSCO);
  • l’originale pagina su Lavinia Mazzucchetti, inserita nel progetto di ricerca tutto svizzero “La gita a Chiasso. Trent’anni di sconfinamenti culturali tra Svizzera e Italia (1935-1965)” del Romanisches Seminar dell’università di Zurigo;
  • una scheda biografica su Waldemar Jollos, consorte di Lavinia Mazzucchetti, redatta da Sara Mazzucchelli per la sezione “Dizionario” dell’ottimo sito Russi in Italia, che copre la prima metà del Novecento.

La copertina del volume contenente gli atti del convegno, di cui infatti riprende la locandina, aggiungendovi una pagina del carteggio di Lavinia Mazzucchetti. Esso è stato acquisito nel 1990 dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori e informatizzato tra il 2003 e il 2005 per agevolarne la fruizione da parte degli studiosi interessati.

Una modesta proposta… ecumenica, in odor di eresia?

La festa mobile del Paràclito
Ieri era il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, in cui i primi cristiani celebravano la Pentecoste (da cui il nome stesso); la seconda lettura a messa è tratta, come di solito, dall’inizio degli Atti degli apostoli, dove si parla dello Spirito santo che discende sui discepoli di Cristo e li rende capaci di parlare con tutti nelle loro stesse lingue.
Vale a dire, di esprimersi come se fossero traduttori/interpreti provetti, in grado di padroneggiare idiomi altrui anche lontani, astrusi, ignoti ai più.
Rileggiamo con attenzione il passo 2, 2-13 (cito dall’edizione curata dalla Conferenza episcopale italiana nel 2008, disponibile online p.es. a questo indirizzo con agevole maschera di ricerca[nota 1]):

tutti […] cominciarono a parlare in altre lingue [… e] ciascuno li udiva parlare nella propria lingua […] nativa,

indipendentemente dalla loro nazionalità di origine:

Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi.

Ciò avvenne con un fragore improvviso dal cielo, come un vento che si abbatte impetuoso, come lingue di fuoco (riordino liberamente, mantenendo però i termini presenti nella CEI), provocando turbamento, stupore, meraviglia, perplessità, ma anche derisione, se alcuni li schernivano affermando:

Si sono ubriacati di vino dolce.

Che è soltanto una modalità diversa del rendere invisibile, trasparente, il lavoro traduttorio.

Rivendicazione e proposta
Perché, allora, non farsi carico di questo senso di ‘straniamento’ riappropriandosene bellicosamente e mutandone orgogliosamente il segno, passando cioè dall’ostranenije di origine tardo-ottocentesca del formalismo russo alla Verfremdung brechtiana[nota 2], perché non sfruttare questa occasione per celebrare IL GIORNO DELLE TRADUZIONI?
L’umile lavoro svolto quotidianamente dai traduttori/interpreti sparsi in tutto il mondo rinnova senza posa quel momento altissimo e splendido, quello squarcio apparentemente singolare, avvicinandolo (come forse avrebbe voluto Cristo?), ossia rendendolo più affine (e non più evento isolato), alle capacità, abilità e competenze umane.

Zeitgeist
A) L’uso dell’aggettivo ‘trasparente’, assolutamente sostituibile (quindi perfetto sinonimo, in base alla prova di commutazione hjelmsleviana) in quel contesto, non è affatto peregrino, anzi, del tutto intenzionale. Per questo è evidenziato in nero.
Infatti credo sia soltanto un caso apparente che il primo testo pubblicato da Lawrence Venuti (Our Halcyon Days: English Prerevolutionary Texts and Postmodern Culture) sia comparso nel 1989, lo stesso anno in cui uscì La società trasparente di Gianni Vattimo: a mio modesto avviso potrebbe essere oltremodo interessante, fruttuoso, istruttivo (scegliere l’aggettivo più adatto) un confronto tra le tesi di fondo del filosofo torinese (di cui si parlò molto nei primi anni Novanta, all’interno del tentativo di fornire un quadro interpretativo del postmoderno e/o del ‘pensiero debole’, dopo il fondamentale Crisi della ragione) e gli spunti più generali che emergono dalla lettura venutiana ‘eversiva’ della storia delle traduzioni.

B) Per chi sia troppo giovane, rammento che quello fu l’anno in cui crollò il muro di Berlino, preludio al crollo della ‘cortina di ferro’, cioè dei regimi che gravitavano neall’orbita culturale sovietica, e quindi anche al disfacimento dell’Unione delle (15) repubbliche socialiste, che divenne prima una Federazione russa e poi si ridenominò Comunità degli Stati indipendenti [nota 3]. In quegli anni di cambiamenti tanto rapidi quanto immani, uno degli slogan di Michail Gorbačëv era glasnost’, usualmente ma imprecisamente reso in italiano con ‘trasparenza’ [nota 4]!

* * * *

nota 1
Confrontare le versioni in latino e greco, che si possono ricavare (come DOC) da questa pagina sul sito Documenta Catholica Omnia.

nota 2
Trovo il parallelo in J. Striedter nella sua Einleitung al primo volume dei Texte der russischen Formalismus, Fink, München 1969, poi 1971 e 1977 in economica (senza originali russi a fronte); in inglese si legge a p. 6 del suo Literary Structure, Evolution, and Value. Russian Formalism and Czech Structuralism Reconsidered (Harvard UP, Cambridge-London 1989 – «Harvard Studies in Comparative Literature», 38). L’estraneazione di Brecht ha una consapevolezza e, dunque, una capacità di incidere maggiore rispetto all’altro concetto.
Su internet si trova un saggio di Luca Di Tommaso del 2008 che analizza la relazione fra i due termini, citando altri autori di rilievo nella letteratura a riguardo.

nota 3
A me che non sono uno specialista, consultando tutti i link presenti nelle sezioni 9.3 e 10. della voce wikipediana Storia della Russia pare che si ottenga una ricostruzione discreta, almeno per quanto concerne i fatti.
Un testo da tenere presente sicuramente è Timothy Garton Ash, le rovine dell’Impero. Europa centrale 1980-1990 (Mondadori 1992: è la fusione di The Uses of Adversity, Random House, New York 1989 e di We, the People, Granta Books, Cambridge 1990; traduzione di Marco Papi), soprattutto per l’ottica allargata da parte di un testimone oculare e ‘partecipativo’.

nota 4
In realtà il concetto mi sembra più prossimo a quello di Öffentlichkeit, le cui origini settecentesche seppe ricostruire Habermas nell’ormai lontanissimo 1962 (dando filo da torcere, già allora, ai traduttori, pur illustri; il titolo fu reso con Storia e critica dell’opinione pubblica).
Significa libertà di espressione e di informazione (non semplicemente ‘diritto all’informazione’, quale si legge nel Sabatini-Coletti on-line tramite CdS, scopiazzato p.es. sub voce dal Dizionario-italiano.org), come informava in un intervento sul tema (facilmente reperibile googlando) il russista Vittorio Strada nella terza pagina del «Gazzettino» del 21 marzo 1987, ricordando tra l’altro che il medesimo termine fu utilizzato già da Solženitsyn nella lettera aperta al IV Congresso degli scrittori sovietici (1967) quale condizione per la rinascita del proprio paese.
Sagacemente, il “dizionario di scienze e tecniche” nota l’influsso semantico esercitato dall’«assonanza con la parola inglese, tedesca, francese che designa il vetro (rispettivamente glass, Glas, glace)». Lo chiamerei più precisamente ‘connotazione’.

La terminologia sul ‘baratro’

In questi ultimi giorni uno degli argomenti di politica estera (statunitense, per la precisione) più seguiti è stato la corsa per evitare il cosiddetto “fiscal cliff”. Qui non mi soffermo sull’aspetto fiscale o politico della questione (anche se immagino che avrebbe potuto avere ripercussioni anche sulla nostra economia, proprio perché tuttora a rischio e quindi più esposta), ma sul modo di tradurre il termine nei mezzi di informazione.
Pago subito il mio debito a un sito che si è già soffermato su quella identica espressione polirematica: già il 12 novembre 2012 Licia Corbolante postò sul suo Terminologia etc. un post molto ben articolato, poi ancor più arricchito dai commenti di utenti più accorti/esperti.(1)
“Fiscal cliff” è in sé un’espressione tecnica, che però viene veicolata, rivestita da un’immagine che evoca in maniera più vivida la conseguenza pericolosa (forse per scongiurarla?). Questa particolarità non è strana o insolita: nello stesso linguaggio della fisica teorica si ritrovano tante metafore, e ci sono molti studi che mettono in luce questa peculiarità.
Venendo specificamente alla resa in italiano, una banalissima ricerca su Goggle restituisce per il sostantivo oscillazioni fra “abisso”, “baratro”, “precipizio” e “rupe” (Licia aggiungeva persino “scogliera”). “Baratro” è il più frequente e verosimilmente si imporrà; nel contesto specifico “rupe” sembra assolutamente incongruo, purtroppo si tratta del primo significato(2) presente su uno strumento di facile utilizzo come Wordreference.com, dal quale redattori poco esperti con l’inglese potrebbero averlo ricavato, senza capire che in originale l’immagine si rivolge verso il basso, connota insomma una caduta, mentre la “rupe” (altri traducenti sulla medesima fonte: “scogliera”, “falesia”) fa venire in mente un’ascesa, un percorso verso l’alto.
Purtroppo neanche fonti cartacee sembrano di grande aiuto: il Ragazzini della Zanichelli, il Passerini Tosi della Paravia o il Picchi della Hoepli (ma non ho le ultimissime versioni) offrono una serie di traducenti addirittura più ristretta, ma comunque ‘sbilanciati’ tutti ed esclusivamente verso l’alto, nel senso appena detto.(3)
Si potrebbe anche consultare qualche dizionario dei sinonimi (quelli che ho in casa sono un obsoleto Tommaseo, l’improbabile Gabrielli,(4) un piccolo Folena, il (anzi LA, dato che è una donna, ma il cui nome è stato sempre abilmente occultato, come per tema che dichiarare una ‘maternità’ andasse a scapito della qualità e affidabilità dell’opera…!) Quartu, il Pittano maior e infine il Garzanti curato da Stoppelli (al quale cominciai a lavorare, prima di cambiare editore e impresa). Quest’ultimo è l’unico che si avvicini (nelle schede lì denominate “Inserti di sinonimia ragionata”) a un modello già da tempo consolidato nel mondo anglosassone, ma da noi purtroppo non praticato, chissà per quale recondito motivo (occorrerebbe però rifletterci con attenzione, possibilmente anche per porvi rimedio): la messa a confronto di vari termini, per spiegarne le sfumature di senso, i contesti d’uso, eventuali diversità di registro ecc., che a mio avviso consentono di comprendere assai più della fila anodina di altre parole che siamo soliti trovare. Qualche esempio, sempre dai miei scaffali? La Penguin Modern Guide to Synonyms and Related Words (a cura di Samuel I. Hayakawa, prima ed. Funk e Wagnalls 1968; riveduta da Paul J. Fletcher per l’edizione Cassell 1971, tarata sul “British Eglish”) e il Webster’s New Dictionary of Synonyms (1984 – ma chi è abituato a consultare la terza edizione del Webster sa già cosa può trovarci). Del resto, con i ritmi frenetici di lavoro odierni, chi si può permettere il lusso di ‘perdere tempo’ a consultare tanti dizionari differenti, per di più su carta, al fine di risolvere una questioncella così minuta…?

Tornando rapidamente al filo del discorso, ciò che voglio dichiarare è che mi sembra sia in atto un movimento di ‘acclimatazione’ di termini, in cui più soluzioni lottano per imporsi. Il bello sta tutto qui: cogliere un processo in corso, in fieri, (poco) prima che si cristallizzi. Il percorso che porta alla vittoria dell’una o dell’altra opzione non è chiaro, e non è nemmeno sempre quello che farebbe risplendere una presunta ‘verità’ o ‘realtà’ interna (qui penso all’Eco dell’ornitorinco e alle varie fasi attraversate da Hilary Putnam), la quale poi scalzerebbe quelle che si allontanano da essa. Tutto ciò mi ha fatto tornare in mente il bel saggio Sistema, norma e «parole» (1952) del linguista rumeno Eugenio Coseriu, che si legge nella raccolta Teoria del linguaggio e linguistica generale. Sette studi (Laterza 1971, pp. 19-103) curata da Raffaele Simone. E’ il concetto di “norma” che finisce per svolgere la funzione di mediare tra varie opposizioni: sociale/individuale, astratto/concreto, reiterazione/innovazione, sistema/realizzazione. Ma occorre lavorare, studiare, riflettere ancora per amalgamare questi concetti dentro la riflessione traduttologica.

Siamo a inizio anno e vorrei portare un po’ d’aria nuova anche fra le cose di cui mi occupo, quindi concludo suggerendo un collegamento con una disciplina che non si è ancora affermata appieno qui da noi, la terminologia, ma dalla quale ci si potrebbe aspettare molto.
In estrema sintesi, come si può ricavare anche dalla definizione in Wikipedia, la terminologia come disciplina autonoma si caratterizza per l’approccio onomasiologico anziché semasiologico, al quale sono legate le discipline linguistiche affini, come lessicologia e semantica. Su di essa indico (a) un testo a stampa, (b) un sito tutto italiano e (c) un’introduzione, realizzata all’estero ma disponibile anche nella nostra lingua, che ritengo rappresentativi dell’approccio.
(a) Il volume è il tuttora insuperato Manuale di terminologia (sottotitolo: Aspetti teorici, metodologici e didattici), è a cura di Marella Magris, Maria Teresa Musacchio, Lorenza Rega e Federica Scarpa; pubblicato da Hoepli nel 2002, raccoglie saggi di Franco Crevatin, Susanna Soglia, Khurshid Ahmad, Stefania Coluccia, Bassey E. Antia, Felix Mayer e Claudia Cortesi (oltre che delle curatrici medesime).
(b) Il sito nostrano è quello di Veronica Carioni, che ha organizzato una Breve introduzione alla terminologia, in grado di offrire un’infarinatura più che decente: cliccare per credere!
(c) Il tutorial è noto in inglese come Pavel Terminology Tutorial e la versione italiana è, come si legge direttamente nella pagina apposita del sito “Termium Plus” del Bureau de la Traduction/Translation Bureau canadese (ecco perché bilingue!), “un’iniziativa del professor Franco Bertaccini, della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori di Forlì, Università di Bologna. Il professore ha ritenuto che lo strumento fosse talmente utile da richiedere al Servizio Traduzioni l’autorizzazione a realizzarne la versione italiana, da utilizzare come strumento didattico e di conoscenza terminologica”. Utile complemento è l’Handbook of Terminology, redatto da Silvia Pavel e Diane Nolet (adattato in inglese da Christine Leonhardt): un vero e proprio libro di 172 pagine in formato PDF scaricabile gratuitamente da questo indirizzo.
Infine, per chi volesse approfondire, già nel 2011 la solita Licia forniva un primo ragguaglio bibliografico.

AGGIORNAMENTO 1 (il giorno dopo)
Trovo sul sito Treccani una sezione di ‘Speciali’ con 5 articoli che possono tornare utili a chi voglia farsi un’idea più definita dell’approccio terminologico. Gli estensori sono Maria Teresa Zanola (2), Andrea A. Conti (di formazione medica), Patrizia Collesi e Riccardo Gualdo. Quest’ultimo è utile per precisare quanto scrivevo sulla ricezione in Italia.

AGGIORNAMENTO 2 (dopo qualche giorno: 14/1/2012)
Riguardo a questo stesso argomento, in francese falaise fiscale, ho trovato (come al solito, serendipicamente) sul blog Les piles intermédiaires una serie di riflessioni interessanti, anche nello specifico semantico-terminologico, e corredato di vignette gustose. Meglio di quanto ho saputo fare io qua sopra (ma ad esempio si noti che anche lì si prende in considerazione l’asse spaziale alto/basso). Almeno posso dire, però, di essermi levato (a posteriori) una piccola soddisfazione, battendolo sul tempo: quello è datato 4 gennaio!

AGGIORNAMENTO 3 (17/2/2013)
Perché ho trovato un riferimento al convegno TRALOGY, tenutosi a Parigi il 3 e 4 marzo 2011,(5) sugli sviluppi e le tecnologie della traduzione, di cui è possibile scaricare gli interventi. In particolare, segnalo nella prima sessione l’intervento di John Humbley (in francese, nonostante il nome inglese) sulla «complementarità dimenticata» fra terminologia e traduzione (quella specializzata, principalmente). Vi si analizzano i rapporti fra le due discipline, dalle origini nel manuale di Dubuc del 1978 all’attuale superamento della vecchia ‘disaffezione’ passando attraverso i programmi europei. Utile la bibliografia finale per approfondire.

NOTE

(1)
In generale, ritengo che il blog ‘intercetti’ con tempestività parecchie espressioni interessanti dell’inglese contemporaneo, sulle quali vengano fornite precisazioni ponderate e (perciò) stimolanti: a riprova si veda il post del 21 dicembre 2012 sulle ambiguità di fiscal cuts.

(2)
Ma subito sotto, raggruppati verosimilmente in base al mero genere grammaticale, si leggono anche “dirupo” e “precipizio”, che dal punto di vista semantico andrebbero invece meglio accanto alla “scarpata” della prima riga, la quale schiera i sostantivi femminili.

(3)
E qui si potrebbe aprire il discorso, interessantissimo se non ci portasse troppo lontano, di quanto le opere di consultazione si ‘copino’ tra di loro e quanto elaborino invece autonomamente – e non mi riferisco qui esclusivamente ai vocabolari bilingui, ma anche ai dizionari tout court, a cominciare dalla quantità di parole che alla fine degli anni Ottanta trovavamo riprese nello Zanichelli dal venerando Tommaseo-Bellini. Perciò aggiungo che qui ci starebbe bene almeno uno sguardo a Mario Cannella, Idee per diventare lessicografo. Cambiare il vocabolario dell’italiano che cambia (Zanichelli 2010).

(4)
Che però ho scoperto piacere molto a Franca Cavagnoli: La voce del testo. L’arte e il mestiere di tradurre (Feltrinelli, 2012), a p. 162. Ma in fondo lei stessa nota, sia pure in tono più lieve e ironico, un ‘fastidio’ analogo al mio, quando nella pagina successiva scrive del Premoli: «rapiti dalla bellezza del racconto di ciascuna parola e dalle parole stesse […], si rischi[a] di perdersi e di leggere per ore il vocabolario, voce dopo voce, dimenticando la ragione per la quale lo si era aperto». Siccome di quest’opera non ci sono gli estremi bibliografici a fine volume (strano — ma forse il redattore ha deciso di ignorare le opere ‘vecchie’, o magari era un po’ distratto…), provvedo subito: Palmiro Premoli, Il vocabolario nomenclatore, 2 tomi, Zanichelli 1989 (pp. IX-2688; ristampa anastatica identica al testo originale Il tesoro della lingua italiana. Vocabolario nomenclatore, 2 voll., Manuzio, Milano 1909-1912). Si tratta del «primo importante tentativo nella storia della lessicografia italiana di riprodurre il procedimento proprio del pensiero che spazia per associazione d’idee, per analogie o per metafore da un argomento all’altro, da una parola all’altra», come si può leggere nella scheda relativa sul sito dell’editore attuale (presso il quale risulta tuttora disponibile).

(5)
La seconda edizione si è svolta, sempre a Parigi, il 17 e 18 gennaio 2013, col titolo «Trouver le sens: où sont nos manques et nos besoins respectifs?» ed era organizzata dai paesi baltici che fanno già parte dell’Unione europea (Estonia, Lettonia e Lituania). L’incontro prendeva le mosse dagli esiti dell’incontro precedente e invitava a esporre le criticità presenti nei vari approcci allo studio del linguaggio, dato che è evidente la necessità di trovare punti di contatto in grado di sostenere a vicenda le discipline coinvolte. Sul sito si possono leggere i panel con relatori e interventi e poco altro, ma probabilmente fra qualche mese ci saranno i vari contributi, che a giudicare perlomeno dai titoli sembrano di sicuro interesse anche per chi si occupa di traduzione.