Mi chiamo Alessandro de Lachenal e da oltre trent’anni lavoro a Roma nell’editoria, avendone frequentati vari settori in periodi diversi della mia vita (o durante le mie vite, se soffrissi di disturbo della personalità multipla – però mi piacevano, e ho praticato per diversi anni, giochi di ruolo, specie a sfondo fantasy: Rolemaster, anyone?).
La mia specializzazione è la giunzione fra le competenze traduttive e quelle redazionali (quelle di una volta, almeno). Il mio campo di elezione è la saggistica di scienze umane e conosco bene inglese, tedesco e francese (più qualche infarinatura di spagnolo e russo), elencate in ordine di preferenza personale (mentre nelle richieste datoriali il francese scavalca il tedesco). Di fatto, non ho mai studiato a fondo il francese, diversamente da inglese (Proficiency, 1979), tedesco (KDS, 1983) e russo (4 anni di corsi regolari all’associazione romana Italia-Urss, quindi prima della caduta del muro di Berlino e della susseguente implosione dell’Unione sovietica). Folgorato da Jiři sulla via di Friburgo (quello in Brisgovia, non quello svizzero), mi sarebbe piaciuto imparare anche il ceco (per leggere Mukařovský e Vodička, più che Macha od Holan) e magari mi sarei pure iscritto a slavistica (dove ho, e ho avuto, ottimi amici).
Purtroppo mi sono reso conto che la capacità del mio cervello è limitata, in particolare sembra esser stata saturata dalle lingue romanze, quindi è stato soprattutto il lessico di quelle slave a difettarmi, nonostante la sintassi semplice.
Ah, ho anche un’ottima formazione ‘classica’ con latino e greco, ovviamente.
Per chi fosse (fin troppo) curioso, aggiungo che (a dispetto del cognome) sono nato a Roma 15 anni dopo una cantante che mi piace molto, Roberta Joan Anderson (vabbè, Joni Mitchell per il popolo), e 58 anni prima che morisse Leonard Norman Cohen; dunque sono uno scorpione, anche se dell’astrologia non m’importa assolutamente nulla.
Invece mi interessano un sacco di altre cose (al punto di tacciare me stesso di essere dispersivo e inconcludente), tra le quali primeggiano discipline vanitose (in quanto elitistiche) come linguistica, semiotica, retorica, comunicazione.
Creando questo blog ho ceduto alla tendenza (leggasi: μανια) del momento e alla vanità solipsistica di vedermi (e farmi vedere) on-line; al fondo resto però «un tipo antisociale» (cfr. Guccini 1960, 1967).
Qui inserirò alcune informazioni e considerazioni su aspetti del lavoro editoriale (ma non solo: vedi i tags) che mi sono sembrati importanti, spiegando anche il motivo per cui mi appaiono tali.
A questo punto dovrei e vorrei inserire una serie di autori che ritengo pertinenti a questa mia impresa, ma lo farò un po’ per volta, così questa pagina non sarà (quasi) mai definitiva (forse). C’entra anche Victor Klemperer (sul quale, se non sapete bene chi sia, si veda l’utile aggiornamento di Silvia Ballestra del 4 marzo 2019).
Comments are welcome, but do not expect that I will reply to all of them (if any, after all). Grazie comunque del tempo che passerete a leggere questi appunti.
Chi poi non potesse fare a meno di scrivermi, punti il mouse all’indirizzo elettronico: a punto delachenal (tuttominuscolotuttattaccato) at gmail dot com (da ricomporre correttamente, beninteso, quasi come nelle cacce al tesoro da ragazzini).
Orsù, una volta avuto l’ardire di scendere nell’arena, come Shrek dico: «Si comincia…!». Ecco un primo testimone, abbastanza casuale, cioè senza nessuna ragione perché inauguri la serie di testimonianze che ne verranno schidionate (Šklovskij 1925, tr. it. pp. 95 ss., che utilizza però il termine ‘infilzamento’, нанизивaние).
J. Milton, Areopagitica [1644] (trad. di Salvatore Breglia, edizione aggiornata a cura di G. Giorello, Laterza, 1987, pp. 24-25):
La conoscenza non può contaminare, (e neanche i libri, conseguentemente) se non sono contaminate la volontà e la coscienza. Giacché i libri sono come la carne e gli alimenti, alcuni buoni, altri cattivi; eppure Dio […] non fece alcuna distinzione, e disse soltanto: “Levati, Pietro, ammazza e mangia” [Atti Ap. X, 13], lasciando così la scelta alla discrezione di ciascuno. [… Gli alimenti differiscono dai libri cattivi perché questi ultimi, invece,] posson riuscire utili in vari modi ad un lettore cauto e giudizioso, poiché lo mettono in grado di scoprire, o confutare, prevenire ed illustrare gli errori.
A seguire (ma senza nessun ordine preciso), Michel de Certeau:
i lettori sono viaggiatori; circolano sulle terre altrui, nomadi dediti al bracconaggio in campi che non hanno scritto, pronti a impadronirsi delle ricchezze d’Egitto per goderne.
Il brano è tratto da Arts de faire, primo volume del suo L’invention du quotidien, nuova ed. a cura di Luce Giard, Gallimard, 1990, p. 251 [cap. XII, intitolato «Lire: un braconnage»] – scopiazzo la traduzione che ho trovato nel saggio di una studiosa che ammiro molto (anche perché docente di Storia della stampa e dell’editoria alla Statale milanese): Lodovica Braida, Gli archivi culturali del Novecento. Non è un secolo come gli altri?, in «La fabbrica del libro. Bollettino di storia dell’editoria in Italia», XVII (2011) 1, di cui funge da editoriale (il saggio è un PDF, che si può scaricare liberamente dal sito della benemerita Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, a questo indirizzo).
La citazione si ritrova identica (segno che piace molto a Braida) anche alla p. IX di L. Braida, «Introduzione all’edizione italiana» di Roger Chartier, Ascoltare il passato con gli occhi (Laterza, 2009 [ed. or. francese 2008 — [si tratta del testo della lezione inaugurale, tenuta l’11 ottobre 2007, al Collège de France per il corso Écrit et cultures dans l’Europe moderne dello stesso Chartier], che ho tradotto e nel quale ho curato anche i Riferimenti bibliografici [pp. 65-80], del tutto assenti sia nel testo francese, sia nella traduzione inglese che apre la raccolta The Author’s Hand and the Printer’s Mind, Polity Press, 2014 [in cui riecheggia il mckenziano Stampatori della mente, Sylvestre Bonnard, 2003, la cui storia editoriale è a sua volta più intricata, ma che non sto a dipanare qui altrimenti sembro un tardo epigono delle ekphraseis sterniane: basterà questa recensione di Lucia Antonelli su «Biblioteche oggi» del 2005, visualizzabile in PDF]).
Il titolo del librettino laterziano che offre la lezione di Chartier costituisce per altro un concentrato di svariate questioni editoriali.
«Escuchar a los muertos con los ojos» ricalca da presso un brano del poeta spagnolo Francisco Gómez de Quevedo y Villegas (1580-1645), «Y escucho con mis ojos a los muertos»: si tratta del quarto verso nel sonetto «Desde la Torre» («Dalla Torre», nella raccolta Musa, II, 109; cfr. la classica traduzione di Vittorio Bodini, da F. de Quevedo, Sonetti amorosi e morali, Einaudi, 1965, p. 68: «E sto a sentire coi miei occhi i morti»), scritto per don José González de Salas. La stessa composizione viene ricordata anche da Jorge Luis Borges (1899-1986) nel breve saggio «Quevedo» (in Altre inquisizioni ([ed. or. argentina 1952], trad. it. in Tutte le opere, a cura di Domenico Porzio, Mondadori, 1986, vol. I, pp. 942 sgg.; cfr. altresì il prologo alla scelta di prose e poesie di Quevedo curata dallo stesso Borges e da Adolfo Bioy Casares [1914-1999], pubblicata a Buenos Aires nel 1948: trad. it. in Tutte le opere, a cura di D. Porzio, Mondadori, 2002, vol. II, p. 879).
Dunque già solo così abbiamo una situazione di (moderato) interesse interlinguistico: ossia, un verso originariamente spagnolo, che Chartier ‘adatta’ in francese, versione a cui il traduttore (con la prefatrice) deve adattarsi necessariamente (ho però fornito tutte le coordinate ‘giuste’ al lettore volenteroso nella mia prima annotazione bibliografica, riportata integralmente qui sopra).
L’editor, tuttavia, opinando che citare «i morti» non stia bene, cioè che essi non possano/debbano comparire in copertina né sul frontespizio (forse riteneva così di salvaguardare la tradizione storicistica della casa editrice alla quale è tanto legata?), impose un «il passato» che trascolorando nell’iperonimia rende il titolo assolutamente scialbo, riuscendo a impoverire e banalizzare l’intentio di Quevedo, di Bodini e di Chartier: complimenti, davvero un gran bel risultato riuscire a gabbare tre autori e quattro secoli con un’unica alzata del suo alato ingegno!
Adiecta cauda in venenum: il fatto che l’editor in questione sia di lì a poco riuscita anche a diventare direttore (pardon, direttrice) editoriale della casa editrice che un tempo fu per me LA meta da raggiungere, va (più che a suo merito) a demerito dell’azienda suddetta, ovvero ne testimonia lo scadimento (che peraltro, lo riconosco, va di conserva col declino generale dell’editoria italiana, ahimé).
Ora ci piazzo quest’altra citazione da Proust (niente meno!), ricavata da una giornata del libro (23 aprile 2013), ma come il 9 gennaio 2017 mi ha insufflato un commento (vedi sotto) originariamente nel terzo tomo, Le temps retrouvé, della mastodontica À la recherche du temps perdu (Pléiade, Paris, p. 890):
Il libro essenziale, il solo libro vero, un grande scrittore non deve, nel senso corrente, inventarlo, poiché esiste già in ciascuno di noi, ma tradurlo. Il dovere e il compito di uno scrittore sono quelli di un traduttore.
Anche se il suo punto di vista è quello di chi compone, non di chi traduce, mi pare interessante anche per quest’ultima categoria di persone.
Dopo qualche anno, ho trovato un blog ispirato all’isola di Cerigotto (da cui il nome) il cui rationale (come lo chiamano gli inglesi: noi potremmo tradurlo con ‘ragion d’essere’) sta nella pagina pendant di questa, intitolata “Perché questo sito” e denominata, affatto immotivatamente, a livello HTML ‘manifesto’, da cui riporto qui appresso alcune delle frasi che paiono più significative ai miei scopi (per leggerla basta cliccare su questo link).
Collocarsi lontano dai luoghi comuni costa fatica, perché richiede la rinuncia al comfort delle associazioni d’idee già familiari, alla tecnologia semplicemente “subita”, e necessita della riattivazione del pensiero vivo e della razionalità. [… insomma] del pensiero critico.
Dove con ‘razionalità’ si intende
quel metodo, formatosi con lo sviluppo dell’antica retorica, che a partire dal “discorso” (logos) ha generato prima l’argomentazione filosofica e poi la dimostrazione scientifica. [… per cui] gli strumenti della scienza e della tecnica, pur essendo un suo prodotto, non possono fondarla né garantirla. Detto altrimenti, l’esercizio della razionalità non è affatto assicurato dall’impiego automatico di alcuni suoi derivati [… a cui si aggiunge il fatto grave che] si è persa la capacità di giudicare il valore della scienza, in vari sensi e a diversi livelli. [… Tutto ciò favorisce anche] il diffondersi dell’idea, riduttiva e fuorviante, che l’alfabetismo scientifico consista nel sapere chi sono gli esperti e come ottenere i loro responsi
che, banalizzati da un’attività giornalistica superficiale, determinano (ma direi meglio: inducono)
una crescente assuefazione all’accettazione passiva di una pseudo-cultura, impossibile da capire e quindi solo da consumare. [… per cui] la “cultura” sta dunque perdendo la capacità di giudicare la società e proporre strumenti di sintesi e interpretazione del mondo, per divenire un settore compartimentato e amministrato da regole comunicative interne: un territorio al tempo stesso privilegiato e inoffensivo. [… tra i cui effetti si segnala la] perdita della dimensione del tempo storico, che induce l’azzeramento della stessa intuizione che ci possa essere qualcosa da sottoporre a giudizio in termini razionali.
Una conseguenza drammatica di tale scenario è
La parcellizzazione del sapere in innumerevoli “saperi” tra loro non comunicanti e coltivati da distinte consorterie di specialisti, ciascuna pronta a legittimare tutte le altre pur di evitare interferenze nel proprio settore, produce infatti un abbassamento drammatico delle barriere in grado di arginare il dilagare dell’irrazionalismo, anche tra gli stessi scienziati. Il lavoro del “ricercatore” è divenuto una specializzazione professionale come le altre, operante in un campo generalmente molto ristretto, reso omogeneo dalle riviste sulle quali pubblica, dai protocolli standardizzati, dai linguaggi e dai software adottati. In altre parole, il ricercatore non è più, generalmente, un intellettuale, e non appena esce dal suo microsettore di competenza, egli è preda dell’affabulazione mediatica precisamente come l’uomo della strada.
L’obiettivo dichiarato è quello, scontato ma evidentemente ancora lontano dall’essere raggiunto, di superare la tradizionale divisione delle ‘due culture’. E mi piace molto la chiusa, che sottolinea la necessità/l’impegno di
procedere attraverso una comunicazione intensa, senza fretta, che talora può apparire faticosa, ma che comunque privilegia la cosa da comunicare rispetto alla potenza del canale di comunicazione, l’esigenza di fornire una rappresentazione critica della realtà rispetto all’obiettivo di modificarla [corsivi di AdeL].
grazie a te della precisazione: era ora che trovasse la sua ‘casa’!
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M. Proust, Le temps retrouvé, in: À la recherche du temps perdu, Paris: Pléiade, III, p. 890.
Bellissima introduzione! Grazie.
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Hai per caso un blog o un sito? Dal tuo appunto non riesco a ricavare nulla di significativo… altrimenti pazienza, e grazie se verrai a trovarmi ogni tanto.
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