Julian Assange (foto di repertorio) e la moglie avvocata Stella Moris
La mattina del 27 aprile 2023 è stato presentato nella sede romana di Radio Radicale, organizzato dalla Federazione Nazionale Stampa Italiana, il libro di Nils Melzer con Oliver Kobold, Il processo a Julian Assange. Storia di una persecuzione, tradotto da me e Viola Savaglio per i tipi dell’editore romano Fazi, con prefazione di Stefania Maurizi (la maggiore specialista in Italia su Assange) e freschissimo di stampa. Sarebbe stato bello saperlo per tempo, ma cliccando qui sotto potete comunque ricuperare la registrazione integrale dell’evento, che dura un paio d’ore (c’è un refuso nel titolo riportato sulla pagina del sito, manca la ‘r’ dal cognome dell’autore principale):
Dopo questi convenevoli, anche un po’ troppo sbrodolati, vi invito ad andare al minuto 1h 05 del video (sul sito si può anche seguire soltanto l’audio) per condividere il piacere che ho provato, insieme a Viola Savaglio e Laura Senserini, ascoltandolo.
A Viola (collega iscritta ad AITI e dal 2010 docente di Interpretazione consecutiva e Terminologie tecniche, per le lingue tedesco e inglese, presso la Scuola per Mediatori Linguistici Carlo Bo di Bari) non ho difficoltà a riconoscere il pieno merito per l’alto livello e la qualità della traduzione italiana, che richiedeva competenze specifiche di terminologia giuridica, da armonizzare con l’intento dell’autore di fornire un testo leggibile dal pubblico più ampio. Come difatti scrive Melzer stesso nell’introduzione, il suo libro riassume «in forma facilmente accessibile la mia indagine e le conclusioni a cui sono giunto, citando di volta in volta le prove più rilevanti», perché lo ha scritto «non come avvocato di Julian Assange, bensì conme avvocato dell’umanità, della verità e dello Stato di diritto», dato che «non voglio lasciare ai miei figli un mondo nel quale i governi possano passare impunemente sopra allo Stato di diritto e nel quale sia diventato un reato dire la verità» (pp. 11, 14 e 13). Ora, questo risulta singolarmente interessante proprio anche per la situazione che stiamo vivendo in Italia, nella crisi delle nostre istituzioni di fronte a un governo dichiaratamente di destra per la prima volta dopo molti anni.
Perdonate la divagazione, ma ritengo che tradurre non sia un’attività svolta in isolamento, sganciata dalla realtà sociale, politica, economica che la circonda (e a prendere davvero bene in considerazione tutte le circostanze, non era così neppure in epoca medievale, nonostante le apparenze del contrario). Tornando al testo, ci tengo a segnalare che la traduzione è stata avviata per il primo centinaio di pagine sull’edizione tedesca, ma per decisioni sopraggiunte in corso di lavorazione da parte di Melzer stesso abbiamo dovuto cambiare improvvisamente rotta, virando sull’edizione in lingua inglese che stava per uscire. Questo ha comportato un ritardo nei tempi concordati, dato che ci siamo dovuti far carico pazientemente della revisione completa della prima parte, sia perché i contenuti erano stati ora più, ora meno rimaneggiati, sia perché abbiamo toccato con mano quanto la struttura di un testo saggistico in inglese sia strutturalmente differente da quella anche del medesimo testo in tedesco. Se non si fosse capito, l’abbiamo dovuta riscrivere quasi interamente daccapo!
A completamento di queste informazioni di sfondo, rammento che questo testo è un altro obiettivo raggiunto nella crescita professionale di Viola, passata dall’ambito più tecnico-specialistico (come si può leggere sul suo sito personale) alla traduzione letteraria, in cui aveva già dato buona prova di sé nella resa del Tempo della speranza, l’ultimo volume della trilogia di Brigitte Riebe (Fazi 2022, anch’esso un lavoro a quattro mani, ma in quel caso con la collega maremmano-berlinese Teresa Ciuffoletti). Qui ve ne suggerisco la recensione entusiastica di Alessandra Fontana, che si era già sciroppata i due tomi precedenti.
A Laura Senserini, già caporedattrice di lungo corso per Fazi (sin dai tempi di Elide…) va invece la mia stima più sincera per la grande professionalità dimostrata, ma soprattutto anche la comprensione paziente che continua a elargire a chi collabora con lei. Ma in questo caso particolare le sono particolarmente grato per avermi dato la possibilità di tradurre, dopo la serie costituita da Hamilton e Ohlberg, i due Ganser e Wagenknecht (vedi qui sotto la sventagliata di copertine), un libro altamente significativo, di grande impegno etico e sociale.
Si parva licet, questa è stata anche per me un’occasione speciale: infatti per la prima volta mi sono impegnato a chiedere e ottenere riconoscimenti nuovi e particolari nel contratto di affidamento del lavoro (anche a beneficio di Viola, il va sans dire). E auspico che siano soltanto l’inizio di una strada, che anche discutendone con altr* collegh* si preannuncia lunga e complessa, ma che tutti vorremmo portasse al miglioramento sensibile e concreto delle condizioni di lavoro di chi si dedica a questo lavoro così bello, ma anche così negletto. Perché stavolta, in forza della direttiva 790 del 2019 dell’Unione Europea, debitamente recepita nella nostra “legge sul diritto d’autore” (633/1941 con tutte le modifiche successive), possiamo far valere meglio i nostri diritti, come spiega bene STradE, il sindacato dei traduttori editoriali (e se non ne sapete granché ma la cosa vi interessa, andate a leggervi pure questa pagina).
Molto probabilmente avrò pensato anch’io, in passato, che l’ucraino fosse una qualche variante del russo: molto superficiale e scontato, non va bene (tsk)!
Eppure assai tempestivamente, già nel 1998 (l’Ucraina come Stato davvero indipendente esiste dal 1991), l’editore romano Carocci aveva pubblicato un volume di oltre 1100 pagine sulla Civiltà letteraria ucraina di Oxana Pachlovska. Il 9 aprile scorso l’amico polonista Luigi Marinelli l’aveva ricordata con parole di stima su FB («Lei era partita lo scorso febbraio durante la pausa semestrale per andare a trovare sua madre, Lina Kostenko, fra i massimi scrittori e poeti ucraini viventi, la quale lo scorso 19 marzo ha compiuto 92 anni. Le due donne sono rimaste bloccate lì dalla guerra, nella loro casa di Kiev, dovendo Oxana fare la terribile scelta se rimanere con sua madre sotto le bombe o tornare in Italia dalla figlia e dal marito» ecc. ecc.), in un lungo intervento in cui parlava anche di molto altro. Non avendo la preparazione di Luigi, né la sua profondità di pensiero, mi piace soltanto pensare, in memoriam, che alla pubblicazione di quel lavoro così impegnativo non sia stato estraneo l’ex collega Vincenzo Fannini († 29/06/2008).
Non so se il “tomone” sia ancora in catalogo; temo purtroppo sia verosimile che un’opera del genere oggi avrebbe grosse difficoltà di trovare uno sbocco editoriale (al netto delle contingenze “belliche”, ovviamente).
Comunque, con un tempismo davvero singolare, sempre Carocci ha tirato fuori l’anno scorso una Storia e geopolitica della crisi ucraina (tesi di dottorato presentata originariamente nel 2014 dal monzese Giorgio Cella), che ha appena raggiunto il lusinghiero risultato della terza ristampa. Non sono in grado di controllare, ma credo che sia uno dei titoli carocciani in grado di vantare il maggior numero di recensioni (sono linkate nello spazio apposito della pagina sul sito, vedi link): ben 47, alle quali ne aggiungo quest’altra (da cui ricavo anche la foto all’autore) del 16 marzo scorso.
Giorgio Cella, docente a Milano presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore
E l’altroieri è appena uscito (e mi sono letto subito) questo più lieve articolo sul “ricco puzzle linguistico dell’Ucraina” di Claudia Bettiol, che in Ucraina ci vive. È uscito sul sito-progetto multimediale Meridiano 13, quello che a Est segna «il confine nord-orientale italiano» (te l’insegnano loro, in un angolino, per non apparire saccenti) e promette di essere molto interessante. Andatevi a guardare quello che c’è già adesso! 😉
Un caro collega mi ha informato tempestivamente che la mattina del 2 novembre è venuto a mancare uno dei più alacri traduttori di saggistica in Italia: Michele Sampaolo. Personalmente, non ho alcun dubbio che la terra gli sarà lieve, in virtù dell’immane lavoro che ha praticato ogni giorno, per mezzo secolo, ai massimi livelli in quel settore, indispensabile alla cultura di un paese, ma troppo spesso trascurato. Michele padroneggiava senza alcun problema inglese, francese, tedesco, russo, ebraico, oltre ovviamente a latino e greco classico (e magari anche qualcos’altro che non ho mai saputo). E al riguardo esordisco con un aneddoto: quando uscì il libro di Beck Conditio humana, Il rischio nell’età globale (tradotto da Carlo Sandrelli nel 2008), qualche sapientone eccepì che il sostantivo latino avrebbe dovuto essere corretto in condicio, come in par condicio: l’erudizione di Michele salvò tutti (capra e cavoli) argomentando che anche conditio era attestato, seppure come tardo (e difatti se ne trovano varie accezioni sul Du Cange, oltre che nel Forcellini). Ma di soluzioni come queste, ai problemi ardui che insorgono talvolta in fase redazionale, talvolta in quella specificamente traduttiva, Michele ne trovò instancabilmente e in maniera quasi “naturale”; a questo arrivò anche grazie alla lunga collaborazione con la Treccani, probabilmente la migliore fucina redazionale in Italia sino a quando fu attiva. Ma ciò che più importa è la sua generosità dispensata erga omnes, che fossero intimi colleghi o traduttori esterni, più o meno bravi, di cui vagliava il lavoro. In lista Michele è stato definito «un redattore attento e scrupoloso, una persona gentile e disponibile, sempre pronta a condividere il suo immenso sapere». Grazie, Paola, e da parte mia confermo: la stima per lui era impagabile e tributatagli da chiunque lo avesse incontrato.
Non ci vedevamo più da parecchi anni, per le pieghe diverse che le nostre esistenze avevano preso, ma questo post nasce dall’esigenza di comunicare che la sua si è intrecciata strettamente con la mia in due momenti oltremodo significativi, almeno per me. Cerco di illustrarli qui appresso, tanto lucidamente sono ancora stagliati nei miei ricordi.
La copertina di un testo sul quale tornerò brevemente più avanti
La prima fu all’inizio degli anni Novanta: dopo un apprendistato in ambito lessicografico, condotto sotto l’ala protettiva demauriana, lavorando a Roma per case editrici prima milanesi, poi torinesi, raggiunsi uno degli obiettivi più importanti che mi ero riproposto (anche se magari non osavo confessarlo neanche a me stesso): l’assunzione (a tempo indeterminato!) nella notissima casa editrice barese già prediletta da don Benedetto. Ecco il mio “dietro le quinte”.
Dopo l’estate 1991 Michele volle tentare l’impresa solitaria: con alle spalle già parecchi anni da dipendente (prima a Bari, poi a Roma, dove con lungimiranza era stata aperta un’altra sede fra il 1973 e il 1974, la cui centralità geografica si rivelò utilissima per la politica laterziana) aveva annusato il vento e capito che il futuro sarebbe stato molto diverso. Volle quindi licenziarsi e provare a lavorare come freelance. Aveva avuto l’intuizione giusta, da profondo e riflessivo conoscitore dell’ambiente editoriale, ma forse la decisione fu prematura. In tutti i casi, la sua bravura lo ha portato a collaborare in un arco di tempo molto esteso anche con una vastissima gamma di editori rinomati: il Saggiatore, Einaudi, Mondadori, Leonardo, Baldini & Castoldi, Donzelli, San Paolo (poteva mancare…?), La Nuova Italia Scientifica-Carocci, Vita & Pensiero. Posso averne dimenticato qualcuno, ma sicuramente andrebbe aggiunto tutto quanto realizzò per la scolastica, soprattutto laterziana (realizzata quasi esclusivamente a Bari), e che raramente è documentato e dimostrabile.
Tuttavia la sua uscita liberò un posto ambitissimo, e siccome con Laterza (allora guidata dall’abile e brillante Enrico Mistretta, classe 1939, che purtroppo di lì a poco sarebbe andato a svolgere una funzione culturale “prestigiosa” – quanto meno, remunerata meglio – alla Comunità Europea) stavo già collaborando (a titolo gratuito, sfruttando ciò che facevo per la Fondazione Sigma-Tau, specialmente la preparazione degli incontri di “SpoletoScienza”, che si sono succeduti per ventitré anni all’interno del Festival dei Due Mondi nell’antica città umbra e i cui atti ha pubblicato, appunto, Laterza), il direttore editoriale mi propose di prendere il suo posto.
Il libro pubblicato da Mistretta nel 2002
In quel momento non avevo davvero idea di cosa significasse, oltre alla meraviglia, al senso di gratificazione personale e al coronamento di un sogno (e di una carriera, per certi versi).
Anzitutto perché non conoscevo colui che indirettamente mi stava cedendo la sedia che aveva già occupato a lungo.
Perché mi sfuggiva il grande divario che c’era fra me e lui (a mio sfavore, beninteso), sia per una miopia congenita (vedi sopra), sia per la hybris che mi aveva pervaso al raggiungimento di quell’obiettivo.
Perché non avevo alcuna esperienza (né teorica, né tanto meno pratica) del lavoro editoriale che si svolgeva all’interno di una casa editrice.
E perché non potevo immaginare quanto, nel bene come nel male, e quanto a lungo mi avrebbe segnato quell’occasione divenuta inopinatamente realtà. Ma feci il salto, e forse non ringraziai mai a sufficienza Michele di quel “regalo”.
Ma non basta. I suoi consigli (a cominciare dalla presentazione di buona parte dello stuolo di traduttori che lui aveva selezionato e seguito per anni, e che continuai a utilizzare a mia volta con grande profitto), la sua chiarezza, la sua sicurezza negli interventi sul testo furono ancora per molto tempo una guida calma e affidabilissima (perfino quando non gli chiedevo nulla, mettiamo per imbarazzo…).
Del resto, va detto che Michele non si allontanò mai dalla Laterza. Lo attestano le due edizioni dell’immane catalogo storico (quasi 1500 pagine!), affidate alle sue mani (e alla sua memoria) più che esperte.
Adesso passo alla fase successiva, più matura (?).
La seconda volta che i nostri destini si incrociarono fu per certi versi una replica della precedente: lo scenario era assolutamente mutato, ma l’esito risultò di nuovo favorevole a me. Ma perché possiate capire meglio, devo fare qualche passo indietro.
Nel 1999 fu avviata una seconda ristrutturazione della casa editrice: dopo lo smantellamento della redazione di Bari, pochi anni prima, fu la volta di quella di Roma. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si trattò di un evento improvviso e/o vissuto in maniera drammatica: l’iter fu studiato nei dettagli e pilotato per diversi mesi, anche tramite incontri con i lavoratori, suppongo al fine di evitare scossoni che avrebbero messo in crisi, almeno temporaneamente, la struttura produttiva dell’azienda. Agli “interni”, cioè i redattori che avevano un contratto di lavoro dipendente (come il sottoscritto), fu proposto un accordo che prevedeva la fornitura di lavoro a ciclo continuo per un congruo periodo, a fronte del loro auto-licenziamento (per ridurre le spese aziendali, mentre i singoli si sarebbero dovuti far carico di aspetti e dettagli fiscali sino a quel momento ignoti).
In zona Cesarini (leggasi: a dicembre), grazie a un caro amico trovai una scappatoia da quella “tonnara” ed entrai in un’azienda che si occupava di intrattenimento ludico, principalmente su internet (che proprio allora stava muovendo i primi passi, va tenuto presente!). Ci rimasi tre anni, feci esperienze molto interessanti e in un certo senso mi “ossigenai” a contatto di problematiche nuove, comunque diverse da quelle a cui ero abituato.
Uno dei loghi della società per la quale lavorai all’inizio del nuovo millennio
Quando però le cose cominciarono ad andare male (colpa della dirigenza inadeguata e del mercato troppo competitivo, ma non sono in grado di giudicare in quali proporzioni), non ebbi nessun’altra idea migliore che fare ritorno all’ovile, inscenando una sorta di “figliol prodigo” per rientrare nelle grazie della dirigenza, che aveva già preso a modificarsi in maniera sostanziale rispetto alla gestione precedente (infatti Vito Laterza, artefice della rinascita della casa editrice nel secondo dopoguerra, era scomparso a metà del 2001).
E, nella breve parentesi in cui avevo “dirazzato”, chi pensate che abbia svolto il ruolo già occupato da me? Sì, risposta esatta: Michele, il quale però stavolta mi cedette di buon grado lo scranno, pardon, il testimone, perché si diceva che al piano superiore della “Loggetta” ai Parioli non avessero accettato una sua richiesta di adeguamento del compenso (un’affermazione che non suonava affatto insolita in quel contesto…). E così tornai a fare per un’altra decina di anni più o meno le stesse cose che avevo fatto prima (davanti al giudice civile sarebbero poi state qualificate “mansioni”), ma che prima e dopo di me aveva fatto ancora e sempre (e verosimilmente meglio) Michele: insomma, tutto quello che passava a livello pomposamente formale come “Ufficio Traduzioni”, una scatola nera per chiunque fosse fuori da lì e di cui mi spacciavo come responsabile (o più fico: Translations Coordinator) ovunque fosse richiesto, opportuno e minimamente praticabile.
Se non vi siete stufati di leggere sin qui, c’è anche un epilogo.
Verso la fine dell’anno in cui cessai la mia avventura laterziana (o se preferite, per utilizzare un linguaggio più attuale, la sua “seconda stagione”), alla ricerca di spunti innovatori e altri agganci (tirava già un’ariaccia, però mi rifiutavo tanto pervicacemente quanto erroneamente di pensare al peggio) mi inventai di organizzare un ciclo di conferenze presso la Casa delle Traduzioni, pienamente in funzione già da un paio d’anni. Era incentrato sulla traduzione saggistica, da sempre punto cardine della casa editrice per la quale covavo anche altri propositi e alla quale volevo far fare bella figura (ad esempio, organizzando dal 2009 al 2012 quattro stage con persone addottorate presso la Sapienza, precisamente a Villa Mirafiori che ospitava Lingue, mentre adesso è rimasta unicamente Filosofia) e con cui ho avuto tutte le forme contrattuali possibili e immaginabili (anche quelle “sbagliate”).
Volli chiamare cinque traduttori che potessero testimoniare in maniera autorevole ciò che ciascuno di loro aveva fatto per la “casa Laterza”: il primo della lista non poteva essere altri che Michele. Affibbiando al suo intervento di esordio un titolo nobilitato da una criptocitazione, tentai di ripagarlo così delle gentilezze che aveva usato nei miei confronti almeno due volte in passato.
Coda (forse, ormai non più necessaria).
Non ho nessuna foto di Michele, né se ne trovano sul web (io non sono stato capace di reperirle). Mi piace pensare che questo sarebbe stato il suo desiderio, tanto era schivo e modesto nel suo lavoro assai prezioso.
Chi non lo conosca e voglia sapere cosa ha portato a termine, potrebbe digitare il suo nome in uno dei campi di ricerca dell’Opac Sbn, modificando però l’etichetta, da ‘Autore’ o ‘Titolo’ a ‘Parole chiave’. Qualcuno dei libri (quasi un centinaio) prodotti dalla ricerca lo avrà incrociato senz’altro, almeno per sentito dire!
Provo qui a ricostruire alcune direttrici sommarie della sua attività instancabile. Non pretendo però di dire l’ultima al riguardo, e nemmeno “la verità”: prendetele semplicemente come un mio esercizio ermeneutico, congetturale, fallibile e come tale soggetto a confutazioni e miglioramenti. Se, anzi, vorrete proporne, sarò lieto di inserirli.
Il volume più remoto che tradusse (Paul Matthews Van Buren, Il significato secolare dell’Evangelo , ed. it. a cura di Filippo Gentiloni Silveri; Gribaudi, Torino, 1969) ci introduce subito a uno dei suoi interessi più vivi: la religiosità e la spiritualità, che difatti ritroviamo anche in anni più recenti, con testi di Sanders, Pelikan, Panikkar, Schürmann (su mastro Eckhart, nella serie ‘esoterica’ diretta da Toto Tamaro come quello citato immediatamente prima) e Tolan. Girava voce che in gioventù Michele avesse studiato in seminario per prendere i voti; pudore, riserbo o timidezza mi hanno sempre impedito di fargli domande dirette in merito, né dopo tutto mi interessava approfondire la cosa; posso soltanto affermare che questi temi lo hanno sempre interessato.
Peter Brown al conferimento del Premio Balzan (2011)
“Ortogonali” a questo primo campo si pongono grandi (spesso anche per il numero di pagine) volumi storici, una costante, verrebbe da qualificarli: da Obolensky (un classico, uscito nel 1974) a Ullmann, Vauchez, Mack Smith, Rémond, Winkler, Goodman, sino ai più recenti Wheatcroft, Lowe, Greengrass. Il capolavoro tra essi rimane però a mio avviso la summa di Peter Brown: chi leggesse distrattamente il solo titolo (La formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità, 200-1000 d.C.), potrebbe pensare che i due testi apparsi nel 1995 (nella sfortunata ma eccellente collana “Fare l’Europa”, diretta da Jacques Le Goff e alla quale partecipavano a pieno titolo gli editori europei con i quali Laterza era in contatto da svariati anni, per affinità e interessi comuni) e poi nel 2006 (nella nuova “Biblioteca storica”) fossero praticamente identici. Invece il grande storico irlandese aveva riscritto di sana pianta dopo una decina d’anni la sua sintesi, arricchendola di una mole di dati che quasi ne raddoppiarono lo sviluppo in pagine: naturalmente toccò a Michele ricucire e ampliare sapientemente il lavoro già fatto una prima volta, senza stravolgerlo.
Questo mi permette di mettere in luce un’altra caratteristica di Michele.
Egli era un impiegato di vecchio stampo, nel senso che era in grado di fare pressoché tutto quello che poteva passare sui tavoli editoriali. In particolare, la sua padronanza assoluta delle tecniche di redazione si sposava magistralmente a quelle traduttive, formando un nesso indissolubile, la cui qualità spiccava in modo da rendere i suoi servigi irrinunciabili.
La copertina del secondo volume del Pensiero medico di Grmek (1998)
Chi abbia letto sin qui, potrebbe essere indotto a credere che Michele non avesse familiarità con le materie scientifiche. Nulla di più sbagliato! Ecco infatti spuntare dal suo cappello a cilindro lo psicoanalista Alfred Lorenzer nel 1976, la monografia di Pagel su Paracelso nel 1989, il “manoscritto russo” di Lorenz nel 1993; nel 1996 è attestato anche un Scienze della terra e biologia, e sempre in quel decennio seguì molto da vicino (in particolare, curò l’allestimento degli indici analitici) i tre volumi della Storia del pensiero medico occidentale diretta da Grmek. Nel 2002 volse infine in italiano uno dei libri più belli del genetista Lewontin. Quindi Michele era un’enciclopedia ambulante!
Michele sapeva digerire apollineamente anche una materia per me ostica come l’economia: stanno a dimostrarlo gli imponenti ma impeccabili volumi di Salvatore (quello per Carocci), di McCormick e la revisione di Rodrik (che per me fu un osso molto duro).
I quali ci portano vicino a un altro pallino, che Michele condivise con la dirigenza laterziana (soprattutto Giuseppe): l’anglo-tedesco sir Ralf Dahrendorf. Per qualche motivo mai chiarito fino in fondo, mi è parso sempre che l’epiteto di “erasmiano”si attagliasse perfettamente allo spirito e al corpo del suo traduttore…
La copertina di uno dei tanti libri di Dahrendorf tradotti da Sampaolo
Dahrendorf costituiva per Laterza una sacra trimurti (ma questa espressione era usata in un altro senso dalla caporedattrice di lungo corso, sua vecchia amica e vicina di casa) accanto a Le Goff e, dal nuovo millennio, all’émigré polacco Bauman. La traduzione di molti testi di questi autori infatti è stata assegnata a Michele, che era una garanzia tanto per la resa, austera ma scorrevole, quanto per le consegne, altro tassello essenziale nella programmazione editoriale.
Last not least, come già accennato all’inizio, Michele sapeva anche il russo. Talento sprecato in Laterza (come peraltro in moltissime case editrici nostrane), se ricordo appena un testo tradotto (da una giovane Michela Venditti, non sempre d’accordo con la patron Clara Castelli) da quella lingua durante i miei anni di militanza editoriale: ma era di Gurevič, lo stesso medievista tradotto da Michele nel lontanissimo 1982, battendo in breccia le epocali Categorie di Einaudi (anche se dall’autore in persona sappiamo che le due opere furono redatte pressoché in contemporanea). Sono però ugualmente fiero di avere una copia dell’opera curata da Manselli, con alcune correzioni nelle pagine iniziali quasi sicuramente di mano di Michele.
Il testo pubblicato da Laterza nel 1982
E ritengo che potesse essere stato solamente lui ad aver lasciato negli scaffali di una stanza della redazione romana alcune riviste sovietiche con articoli che magari intendeva proporre o qualcuno gli aveva chiesto di valutare a fini editoriali.
No, Michele non assomigliava neanche un po’ al grande linguista russo Jakobson…
Concludo questa scorribanda sconclusionata, rammentando che fu Michele a tradurre nel 1980 dal russo la gradevolissima intervista (para-autobiografica) a Jakobson della moglie Krystyna Pomorska (lo stesso anno uscì in francese per Flammarion e una versione più ampia è stata ripubblicata nel 2009 da Castelvecchi nella traduzione di Giulia Bottero), poi confluita nell’ottavo volume dei Selected Writings (1988, ma copyright 1987) col titolo informale di Besedy (conversazioni, in russo — e a tale riguardo non possono non tornare in mente anche le Conversazioni sulla cultura russa del compianto Jurij M. Lotman, curate da Silvia Burini e tradotte da Valentina Parisi per Bompiani nel 2017, ma nate nel 1976 per trasmissioni televisive che “Jurmich” poté tenere dal 1986 al 1991, come 35 ‘lezioni’ tanto poco tradizionalmente accademiche, quanto invece altrettanto istruttive).
Aggiunta (25 dicembre 2021)
Qui, su indicazione del collega e amico Luca Falaschi (che ringrazio, ricordando altresì che ebbe la fortuna di conoscere Michele e il privilegio di poterci lavorare fianco a fianco ancor prima di me), riporto le belle parole pronunciate da Andrea Riccardi, in occasione della presentazione dell'edizione italiana della Storia mondiale degli ebrei, a cura di Pierre Savy (Laterza 2021), l'ultimo volume tradotto da Michele prima di lasciarci.
«Vorrei ricordare chi in genere non si nomina mai, cioè il traduttore [...Michele Sampaolo] che ho conosciuto in tanti anni di frequentazione della Laterza, perché questo è il suo ultimo lavoro prima della morte. Lo ricordo come un redattore e un traduttore di grande spessore culturale, un'intelligenza superiore, dotata di grande erudizione in tanti campi, un umanista, anche se la sua è stata una vita silenziosa e dietro le quinte, anche perché dotato - lo sa chi ha lavorato con lui - di un perfezionismo che qualunque autore normale giudicava eccessivo. Ho voluto aprire questa parentesi perché la traduzione di questo libro in italiano - traduzione che sembra facile dai libri francesi in italiano, ma il francese lascia nei libri italiani una patina incredibilmente pesante - è molto, molto riuscita».
La registrazione integrale dell'evento si può riascoltare all'indirizzo internet di Dante.Global, che corrisponde a questo su YouTube.
In particolare, l'elogio di Riccardi va dal minuto 28 e 33 al 29'36''.
Non ho mai lavorato per Einaudi, quindi non ho avuto l’occasione di conoscere di persona Enrico Ganni, editor e traduttore dal tedesco per la casa torinese, purtroppo scomparso prematuramente il 17 luglio scorso. Dunque avevo qualche scrupolo a metter mano a questo post, pur ‘sentendomelo’, ma alla fine l’auspicio che le (buone) ragioni per averlo fatto emergano dalla mia stessa argomentazione mi ha convinto a superare le perplessità iniziali.
Da sinistra a destra, Enrico Ganni, Claudia Zonghetti e Leonardo Marcello Pignataro.
La foto1 qui sopra è stata scattata dalla traduttrice e animatrice culturale Anna Nadotti2 durante la presentazione a Torino il 2 novembre 2016, presso la Libreria Bardotto di via Giolitti, della nuova traduzione di Anna Karenina (Einaudi 2016, collana «Supercoralli», pp. 968, €28), romanzo capitale di Lev Tolstoj, pubblicato originariamente a puntate fra il 1875 e il 1877 (dopo dodici stesure, sembra). L’evento faceva parte di un ciclo, organizzato da Anna Nadotti stessa con Annalisa Ferretti, che si chiamava: “Leggere e rileggere in compagnia di traduttori e editor”.
La bella istantanea ritrae il sorriso sornione di Enrico Ganni, che probabilmente aveva intravisto Anna Nadotti mentre inquadrava i relatori; poi a destra, col microfono in mano, c’è Leonardo Marcello Pignataro (valentissimo traduttore da inglese, russo, francese, latino e slovacco, docente di vari corsi di traduzione e membro del comitato scientifico della Casa delle Traduzioni a Roma, insieme a Ilaria Piperno) e al centro l’eroina della serata, Claudia Zonghetti, autrice(in senso forte, come ha spiegato lei stessa) della traduzione suddetta.3
Può essere utile ricordare che Ganni visse a Francoforte sul Meno fino al completamento degli studi secondari: quindi era praticamente bilingue! Questo in parte spiega come abbia cominciato a lavorare in Mondadori, per passare poi a Feltrinelli; inoltre insegnò lingua tedesca presso il Goethe-Institut milanese, traduzione tedesca dal 1981 al 2000 presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori (che oggi si chiama Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli, che diresse anche dal 1994 al 1998) e fu lettore presso l’Istituto di Germanistica alla Statale di Milano.
L’articolo a mio avviso migliore su chi era e cosa ha fatto Enrico Ganni è quello di Roberto Gilodi, pubblicato su «Doppiozero» assai più tempestivamente di questo mio post. Ne cito qualche passo, cominciando dall’«eleganza gentile e l’ironia garbata ma mai irriverente» dello scomparso, a: «La mitezza di Ganni faceva tutt’uno con la sua franchezza e con la determinazione schietta a dire i no che all’editoria di cultura sono vitali per progredire», fino al giudizio conclusivo su «un uomo buono che ha saputo coniugare la cultura con l’umanità dei gesti semplici». In tutto ciò Gilodi, che lavorò in Einaudi con Ganni a cavallo tra la seconda metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, racconta di come l’amico e collega, in visita a Günter Grass nell’abitazione di Lubecca, seppe far dire spontaneamente allo scrittore tedesco su cosa stesse lavorando ma senza porre domande dirette, intrusive. Splendido esempio di come Ganni «sapeva stabilire con i suoi autori una sorta di intimità sui contenuti che gli permetteva di entrare nel loro mondo creativo pur mantenendo una distanza rispettosa dalle loro vite. Un comportamento per nulla frequente nell’editoria, spesso succede l’opposto» (mio il corsivo su questo commento finale).
Un altro grande merito di Ganni è stato quello di aver ripristinato coraggiosamente l’intento a cui si era ispirato una trentina di anni fa Giorgio Agamben, decidendo di curare l’edizione einaudiana di Walter Benjamin. Che era un criterio cronologico, mentre l’edizione tedesca curata da Wolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser (più altri ancora, che soppiantava la prima scelta di opere benjaminiane, curata nel 1955 da Theodor W. Adorno in due volumi, ma sempre per Suhrkamp4) ne segue uno tematico. In queste due opzioni di costruire un ouvrage si intravedono, a mio giudizio, due tradizioni culturali ben precise e consolidate, dove in Italia prevale un’impostazione storicista, anche se non da intendere in senso strettamente o unicamente storiografico5.
L’edizione rilegata delle Gesammelte Schriften di Benjamin per Suhrkamp
E penso di non sbagliare troppo se trovo una qualche rispondenza con l’impostazione concordata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari con la triade Luciano Foà (anche qui un articolo simile), Bobi Bazlen6 e Roberto Olivetti per il capolavoro della esordiente Adelphi: ossia la prima edizione critica di tutte le opere di Friedrich Nietzsche, che ne fu contemporaneamente la loro traduzione in italiano, un caso più unico che raro, per quanto io ne sappia.7 A parte, poi, che ciò farebbe il paio con la circostanza fortuita (ma sarà davvero tale?), per cui Ganni subentrò in Einaudi a Roberto Cazzola, quando questi scelse di passare ad Adelphi dopo almeno vent’anni di militanza presso lo struzzo torinese8 e a sua volta Renata Colorni trasmigrò da Adelphi a Mondadori, per dirigere la collana dei «Meridiani».
Se questo non basta, apriamo una risorsa essenziale per traduttori e redattori, l’Opac Sbn, e lanciamo una banale ricerca col suo nome e cognome: il programma restituisce 132 occorrenze, da cui vanno cassati appena un paio di casi di omonimia. Negli altri troviamo il meglio della letteratura tedesca moderna e contemporanea: Goethe, Fontane, Kafka, Freud, Musil, Roth, Hesse, Brecht, Canetti, Grass, Zweig, Drewermann, Enzensberger, Fitzek, Améry, Grünbein sono stati tutti tradotti o perlomeno curati da Ganni – ponendolo così a pari livello, accanto a nomi già rinomati della germanistica italiana del Novecento, come Cesare Cases ed Ervino Pocar – ma vi spuntano anche, curiosamente (mi sarebbe piaciuto chiedergli come mai, da traduttore di saggistica) un paio di titoli, divulgativi ma divertenti, dello psicologo creatore della scuola di Palo Alto, Paul Watzlawick.
Per finire, mi piace accostare qui in limine alcuni giudizi su Ganni, espressi ‘a caldo’ (cioè, sulla spinta dell’emozione per la sua scomparsa, fra il 18 e il 20 luglio) da sue allieve o semplici colleghi in una mailing list per traduttori (in questo caso i nomi non contano):
gli devo molto sia dal punto di vista umano che professionale. A lui devo buona parte di quello che ho fatto in questi ultimi dieci anni: la mia prima traduzione e, a cascata, buona parte di quelle che sono venute dopo, che senza quella prima non ci sarebbero state, l’insegnamento all’università. Insomma, oggi prendo consapevolezza di quanto sia stata una presenza fondamentale nella mia vita, una persona che ha fatto la differenza. Un docente appassionato, un grande traduttore, una persona colta e aperta, piena di voglia di fare e sempre disponibile;
per molti colleghi è stato un mentore, un revisore prezioso, una figura ispiratrice;
lo ricordo gentile e scrupoloso;
ho avuto il piacere di lavorare con lui una sola volta e lo ricordo gentile e scrupoloso. Era evidentemente un uomo di cultura raffinata.
Non suonano inutilmente cerimoniosi (del resto, scrivere su una mailing list è una scelta libera, nessuno è tenuto a farlo se non si prova un’esigenza effettiva), quindi non sono neanche troppo distanti dalle attestazioni di grande affetto e stima, che va oltre quella intellettuale, espresse direttamente dallo scrittore e ispanista Ernesto Franco, in qualità di direttore editoriale Einaudi, quando ha ricordato la sua
cortesia di umanità opposta a quella di convenzione, la discrezione che si prende cura del prossimo opposta a quella che se ne disinteressa completamente, l’ironia che salva opposta a quella che ferisce. […] Enrico faceva parte di quelle rare persone che solo con la loro presenza sono capaci di trasmettere più equilibrio al gruppo in cui lavorano e conversano.
La sua discrezione a volte ironica mi pareva venire da una superiore saggezza, quella che in tedesco si chiama, con un bel termine, Souveranität. […] Non sono state molte, in questo paese, le persone capaci di restituire un’idea di cosa sia stata e di cosa significhi ancora oggi la classicità tedesca: il senso della misura e della civiltà nei rapporti umani, l’ironia come espressione critica del pensiero, il rifiuto dell’eccesso come principio morale, la ricerca inesauribile e congiunta della conoscenza e della felicità. Non sono stati molti, dicevo, gli intellettuali all’altezza di questo modello di civiltà e della capacità di trasmetterne l’esempio. Quegli intellettuali, però, hanno per qualche tempo reso migliore la germanistica e l’editoria italiana trasferendo in esse il senso della cultura per la vita. […] Ma ciò che muore, avrebbe detto Goethe, diventa. E il divenire di ciò che è stato deve essere il dovere di chi resta.
Dunque emerge, aleggia e si delinea da sé, quasi senza sforzo (come forse deve dare impressione di essere una buona traduzione?) la figura di un personaggio misurato, riflessivo, profondo, capace di entrare in sintonia con i propri interlocutori senza sovrastarli, ma anzi concedendo loro tutto lo spazio di cui hanno bisogno. Insomma, un concentrato delle qualità e delle caratteristiche che ogni traduttore vorrebbe trovare in un maestro. Invece oggi prevale troppo spesso la tendenza a parlare ‘sopra’, a esagerare, a forzare le proprie affermazioni, come a puntellare contro gli altri, che sono Mitmenschen, i propri consimili, la fragile debolezza dell’individualità personale, incapaci di ascoltarla, coltivarla e farla crescere in armonia condivisa. Da quanto sono venuto riportando sin qui, mi illudo di credere che, invece, Enrico Ganni ci sia riuscito. E soprattutto che questo aspetto trasparisse agli astanti, seppur magari in maniera indistinta, anche attraverso un ‘sorriso sornione’ durante la presentazione di un libro al quale aveva dato il suo contributo, quale che fosse.
NOTE
1 Ringrazio Leonardo M. Pignataro per aver postato la foto su una mailing list per traduttori e Anna Nadotti anche per avermi concesso di riutilizzarla liberamente qui, oltre a una serie di informazioni che condivido nel mio post.
2 Per chi non conoscesse questa instancabile «critica letteraria, traduttrice e consulente editoriale per la letteratura inglese e indiana in lingua inglese», riporto qui di seguito alcune notizie cursorie, vale a dire scorciatoie informative mascherate da link a pagine su internet; l’ordine di presentazione vorrebbe essere top-down, cioè da siti più generali verso indicazioni sempre più specifiche, ma ognuno potrà riordinarli a suo piacimento (come pure suggerirne altri nei commenti a questo post, eventualità auspicata di cui ringrazio anzi sin d’ora i lettori benevoli).
«Nazione indiana» ha raccolto le sue riflessioni approfondite e suggestive sul tradurre sia A.S. Byatt (con Fausto Galuzzi, 2010) sia A. Ghosh (con Norman Gobetti, 2016).
Audio su «Radio Ca’ Foscari» in cui Anna Nadotti parla di Ghosh e del mestiere del traduttore (gennaio 2020).
Particolare dalla copertina della Karenina einaudiana: il volto di una delle più celebri bellezze russe dell’Ottocento, la principessa Leonilla Ivanovna Barjatinskaja, qui immortalata da Franz Xaver Winterhalter (1805-1873), famoso per tanti ritratti di regine.
3L’uscita della nuova versione di Anna Karenina suscitò qualche polemica, che vale la pena ripercorrere, non foss’altro per osservare che anche una traduzione può scaldare gli animi; perciò riporto qui appresso una serie di link sperabilmente utili a farsene un’idea propria (secondo un andamento che in parte riprende la struttura della nota precedente).
Due confessioni-interviste-dichiarazioni, molto sincere, del giugno 2016 e dell’aprile 2018.
Questa (nuova, o meglio ‘aggiornata’) edizione einaudiana di Opere complete di Walter Banjamin consta di sette volumi, ognuno dei quali porta il titolo Scritti, seguito dagli anni specifici di composizione (da 1906-1922 fino a 1938-1940), più il volume iniziale, del 2000, I «passages» di Parigi e quello conclusivo, del 2014, di Frammenti e paralipomena, che per la loro natura ‘imperfetta’ esulano almeno in parte da quel criterio. Dunque dall’edizione Agamben, pubblicata nel decennio 1982-93, mancavano gli scritti dell’ultimo ventennio di vita di Benjamin. Le Gesammelte Schriften constano di sette volumi (suddivisi in più parti, per un totale di quattordici tomi), pubblicati dal 1972 al 1989 «in collaborazione con Theodor W. Adorno e Gerschom Scholem e a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser […] secondo criteri formali e di contenuto»; essi «hanno accettato, affiancati da Enrico Ganni, di curare anche quella [sc., l’edizione] italiana» (cito dall’Avvertenza editoriale dei «Passages» di Parigi, t. I, p. VII).
La differenza è che all’epoca (prima metà degli anni Sessanta) praticamente non c’erano edizioni davvero attendibili del filosofo tedesco, neanche in originale, mentre Einaudi decise di tradurre integralmente Benjamin soltanto una decina d’anni dopo l’avvio dell’edizione completa Suhrkamp (e non so se fu Agamben a proporlo o, al contrario, l’editore stesso incaricò il giovane e ambizioso studioso italiano – sta di fatto che l’uscita nel 1982 del primo tomo, Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, trad. di Claudio Colaiacomo, poi studioso leopardiano, tornò utile per alcuni dettagli della mia tesi di laurea; osservo che nel 2017 è stata ritradotta la sola “Dissertation” con cui Benjamin si laureò nel 1919, a ventisette anni: Il concetto di critica d’arte nel Romanticismo tedesco, Mimesis, a cura di Nicolò Pietro Cangini). Sui testi niciani ritengo ancora proficui i saggi con cui si apre e chiude la guida Nietzsche. Etica, Politica, Filologia, Musica, Teoria dell’interpretazione, Ontologia, curata da Maurizio Ferraris (Laterza 1999), che firma anche quei due contributi (il secondo con Pietro Kobau: “I. Vita, opere, fortuna”, pp. 3-51 e “VII. La questione dei testi”, pp. 277-303). Assai più recente, si veda anche questa recensione di Alfonso Berardinelli a un libro di Sossio Giametta, sodale e collaboratore di Collli e Montinari.
Riporto qui il testo (più esteso e opportunamente rielaborato per questo ‘canale’, profondamente diverso da quello orale originario, e con un’aggiunta finale sorprendente) della mia presentazione tenuta il 22 maggio 2019 alla Casa delle Traduzioni di Roma, pensata come breve introduzione a Maurizio Ginocchi. Questi era il “vero” ospite della serata, in cui ha parlato a ruota libera sulla sua traduzione (già in seconda bozza) dell’ultima fatica pubblicata dallo storico statunitense Robert Darnton. Il titolo inglese di tale lavoro è (con la consueta finezza stilistica dell’autore) A Literary Tour de France. Publishing and the Book Trade in France and Francophone Europe, 1769-1789 (Oxford UP, 2018), quello italiano potrebbe essere Un tour de France letterario e uscirà per i tipi dell’editore romano Carocci, probabilmente a luglio 2019.
Per completezza, riporto qui anzitutto le poche righe che avevo trasmesso alla Casa delle Traduzioni per l’inoltro via e-mail agli iscritti, ovviamente d’intesa col traduttore.
Maurizio Ginocchi (Roma, 1967), dal 2001 giornalista presso l’agenzia di stampa Askanews. Dal 2015 traduttore a tempo faticosamente ritagliato per la casa editrice Carocci, della quale ha tradotto finora sette libri, tutti di saggistica storica.
Alessandro de Lachenal (Roma, 1958) ha sempre lavorato nel settore editoriale, votandosi interamente alla saggistica di scienze umane e alle traduzioni da inglese, tedesco e francese, in una continuità ideale, ma anche storico-culturale, con filologia e linguistica.
Il caso Darnton è interessante anzitutto per capire come un autore anglofono ha affrontato un argomento di cultura francese: il suo libro in corso di traduzione è il distillato di tanti altri studi più tutto il materiale d’archivio e perciò consta anche di una sezione documentale on-line, di cui la versione cartacea rappresenta un sunto “leggibile”. Ne deriva anche una riflessione sul modo in cui le scelte dell’autore influenzino quelle del traduttore, in particolare per la resa delle fonti francesi originali del XVIII secolo (vanno modernizzate o no?). Particolare attenzione, infine, sarà riservata a esporre il metodo di lavoro fra il traduttore e l’editor.
“Un’idea di Darnton”, il titolo che mi è piaciuto dare a questo incontro informale, è volutamente ambiguo (al pari di quello dell’ultimo volume di Darnton la cui traduzione stiamo per presentare): a un primo livello, molto semplice ed lineare, esprime l’idea che qui purtroppo non sarà presente l’autore, ma ne verrà esposto appena un simulacro in base alle nostre propensioni e predilezioni dettate dall’occasione specifica.
Un secondo livello chiama in causa la grammatica: com’è noto, la preposizione ‘di’ può avere valore soggettivo oppure oggettivo; qui viene riproposto e valorizzato proprio tale carattere ancipite, nel senso che si può intendere sia come “in questo incontro vi diamo una nostra idea di alcune delle tesi avanzate da Robert Darnton” (complemento di specificazione soggettivo), sia per mettere in evidenza una sua proposta specifica, a mio avviso centrale nel suo magistero (complemento di specificazione oggettivo).
C’è poi un terzo livello, più criptico, evocato da un’allitterazione eppure legato all’intertestualità: difatti il titolo vuole richiamarne un altro, che ebbe una certa rinomanza anche se riferito a tutt’altro ambito, e cioè quello del volume Un’idea di Dante, che Gianfranco Contini pubblicò nel 1976 per Einaudi raccogliendovi il meglio dei suoi “saggi danteschi”.1
Tutti pronti? Via!
Il mio compito odierno in questo luogo è di offrire ai convenuti una presentazione sintetica di Robert Choate Darnton. Forse non tutti lo conoscono, o non abbastanza, a causa di interessi vòlti in altre direzioni, o per motivi meramente biografici, mentre è a mio avviso un autore di cui vale la pena sapere qualcosa in più, se vi interessa la Storia, in particolare quella della Francia settecentesca e anche dell’editoria. Che poi, per avventura, io abbia tradotto nel 1994 un suo saggetto uscito su rivista nel 1985 (commettendo almeno due errori, uno redazionale e l’altro traduttivo), conta fino a un certo punto. Dato il tempo ristretto, proverò a lumeggiare soltanto alcuni aspetti del suo ‘metodo’ (anche se probabilmente egli non sarebbe d’accordo su tale termine), due in particolar modo.
Darnton al Festivaletteratura di Mantova nel settembre 2018.
Stabiliamo dunque anzitutto un quadro temporale: il 10 maggio del 2019 Darnton ha compiuto ottanta anni, che comunque si porta benissimo: qui lo si vede al Festivaletteratura di Mantova nel settembre 2018.
Il suo cv è lungo diciotto pagine, per cui ve lo scaricate e leggete da soli dal suo sito… Qui mi limito a riportare i titoli dei suoi libri tradotti in italiano, in ordine cronologico secondo la pubblicazione in lingua originale, preceduta dall’anno – alla fine di ciascun elemento ho aggiunto anche il nome del traduttore, i link rinviano a recensioni o segnalazioni che mi sono parse significative, mentre quelli sui primi due testi originali in inglese rinviano a un sito dove scaricarne legalmente una versione elettronica completa):
1968 Mesmerism and the End of the Enlightenment in France = Il mesmerismo e il tramonto dei Lumi (Medusa, 2005 – Prefazione di Giulio Giorello, tr. Roberto Carretta e Renato Viola);
1979 The Business of Enlightenment. A publishing history of the Encyclopédie, 1775-1800 = Il grande affare dei Lumi. Storia editoriale dell’Encyclopedie, 1775-1800 (Sylvestre Bonnard, 1998, poi Adelphi, 2012 – tr. Antonio Serra);
1982 The Literary Underground of the Old Regime = L’intellettuale clandestino. Il mondo dei libri nella Francia dell’Illuminismo (Garzanti, 1990 – tr. Gianni Ferrara degli Uberti);
1984 The Great Cat Massacre and Other Episodes in French Cultural History = Il grande massacro dei gatti e altri episodi della storia culturale francese (Adelphi, 1988 – tr. e cura Renato Pasta);
1990 The Kiss of Lamourette = Il bacio di Lamourette (Adelphi, 1994 – tr. Luca Aldomoreschi);
1991 Berlin Journal, 1989-1990 = Diario berlinese: 1989-1990 (Einaudi, 1992 – tr. Sergio Minucci);
1995 The Forbidden Best-Sellers of Pre-Revolutionary France = Libri proibiti. Pornografia, satira e utopia all’origine della rivoluzione francese (Mondadori, 1997 – tr. Vittorio Beonio Brocchieri);
1997 George Washington’s False Teeth. An unconventional guide to the eighteenth century = La dentiera di Washington. Considerazioni critiche a proposito di illuminismo e modernità (Donzelli, 2003 – Introduzione di Eugenio Lecaldano, tr. Andrea Branchi);
2003 L’età dell’informazione. Una guida non convenzionale al Settecento (Adelphi, 2007 – tr. Franco Salvatorelli) [questo testo contiene anche il precedente, in un’altra versione];
2009 The Case For Books. Past present and future = Il futuro del libro (Adelphi, 2011 – tr. Adriana Bottini e Jacopo M. Colucci);
2014 Censors at Work. How states shaped literature = I censori all’opera. Come gli Stati hanno plasmato la letteratura (Adelphi, 2017 – tr. Adriana Bottini).
Molti di questi volumi hanno vinto premi e riconoscimenti in tutto il mondo. Noto incidentalmente che su essi hanno lavorato alcuni dei migliori traduttori italiani, come Gianni Ferrara degli Uberti, Sergio Minucci, Franco Salvatorelli, e specialisti, come Renato Pasta: il suo ampio saggio conclusivo nel Massacro dei gatti è molto utile al lettore medio per collocare le posizioni darntoniane nel dibattito storiografico contemporaneo.2
Scorrendo questi titoli, si può evidenziare un tratto caratteristico dell’autore: partire da un episodio di cronaca apparentemente secondario (un’efferata e sguaiata strage di gatti compiuta da stampatori parigini; un vescovo rivoluzionario, nel 1792 deputato dell’Assemblea legislativa francese per il dipartimento Rhône-et-Loire, di cui non sappiamo quasi null’altro; le varie dentiere possedute dal primo presidente degli Stati Uniti) sul quale puntare l’attenzione perché riluttante alle categorie usuali di pensiero, e tramite questa riflessione passare gradualmente a considerazioni assai più pertinenti e illuminanti sulla cultura di quel determinato periodo e su come essa agisca sul modo di stare al mondo tanto di intellettuali rinomati, quanto della gente comune. Come spiega Darnton nel Massacro dei gatti, quei microcasi (adopero questo termine pensando proprio alla microstoria) opachi, incomprensibili, rispondono invece al «bisogno di qualcosa che ci scuota da un falso senso di familiarità col passato, di ricevere dosi di shock culturale» (pp. 14-15); infatti grazie agli antropologi abbiamo «scoperto che i migliori punti d’accesso, quando si tenta di penetrare in una cultura estranea, possono essere là dove essa ci appare più oscura»: proprio lì «possiamo individuare il bandolo con cui dipanare un sistema di significati che ci è sconosciuto» (p. 102); «sollecitando il documento là dove è più oscuro possiamo forse dipanare un sistema di significati a noi estraneo» (p. 15).
I più bravi fra i miei lettori ricorderanno quanto feconda sia risultata una procedura analoga, sostanzialmente negli stessi anni, nella lunga serie di articoli divulgativi del paleontologo evoluzionista (e molto altro ancora…) Stephen Jay Gould.
Fu il giornalismo a tenere a battesimo Darnton; ciò gli deriva dal padre Byron, corrispondente di guerra, morto nell’assolvimento del suo compito durante il secondo conflitto mondiale (anche John, il fratello minore di Robert, arrivò a essere un apprezzato caporedattore della cronaca cittadina per il «New York Times»), e il Nostro non si vergogna di rammentare il tirocinio come reporter di cronaca nera per il «Newark Star Ledger» e il «New York Times», nella prima metà degli anni Sessanta,3 quasi contemporaneamente all’inizio del suo Ph.D. Tale esercizio di scrittura probabilmente gli ha fornito le basi per sviluppare il suo approccio narrativo, assieme al fascino per lo stile di storici tipicamente francesi, come Georges Duby e Jacques Le Goff, in tensione dialettica con la scuola delle Annales fondata da Marc Bloch e Lucien Febvre, diretta all’epoca da Fernand Braudel.4 Se poi scorriamo alcuni titoli di capitolo, ad esempio nel Bacio di Lamourette, vedremo come Darnton si sia misurato con la storia del libro e della lettura, compresa la bibliografia analitica di stampo propriamente inglese (e per questo una denominazione più corretta sarebbe “storia sociale e culturale della comunicazione a stampa”5, con i retroscena del mondo editoriale (per il quale va osservato che Darnton si muove a proprio agio tanto nella seconda metà del Settecento, quanto nell’America di fine Novecento), con la storia del pensiero e delle mentalità, nonché la storia sociale delle idee, la storia etnografica e come abbia coltivato rapporti di buon vicinato con sociologia della conoscenza, studi di letteratura (anche comparata, nonché influenzata dall’estetica della ricezione e degli studi sull’oralità; e per la letteratura francese, non tanto Diderot, Voltaire e Rousseau, ma soprattutto quella ‘bassa’, cioè anche clandestina, satirica, panflettistica e pornografica, che accompagnò la Francia alla sua rivoluzione dirompente, smontando così per via indiretta le tesi marxiste più o meno ortodosse di Albert Soboul, Georges Rudé e Lucien Goldmann), sino all’antropologia.
Difatti è proprio l’incontro con l’antropologia culturale nella versione interpretativa e simbolica davvero originale di Clifford Geertz (un altro studioso americano molto aperto alle suggestioni ‘continentali’ della fenomenologia, ma soprattutto dell’ermeneutica e della filosofia del linguaggio del ‘secondo’ Ludwig Wittgenstein), con il quale condivise per sei anni un insegnamento a Princeton, a instradarlo verso l’approccio che oggi va sotto il nome di ‘storia culturale’ e di cui Darnton appunto è stato uno dei mentori e corifei.6 A suo dire, infatti, «l’antropologia dà agli storici quello che non ha saputo offrire loro lo studio della mentalité: quella concezione coerente della cultura che Clifford Geertz ha definito come “un modello trasmesso per via storica dei significati incarnati dai simboli”».7
Basta però leggere con attenzione per veder saltar fuori dalle righe i suoi interlocutori ideali, che rispondono ai nomi francesi di François Furet, Daniel Roche, Henri-Jean Martin, Frédéric Barbier, Robert Mandrou, Pierre Goubert, Emmanuel Le Roy Ladurie, Philippe Ariès, Michel Vovelle, Jean Starobinski, Roger Chartier, Pierre Bourdieu; ma anche a quelli ben anglo-americani di Arthur Lovejoy, Carl Becker, Stuart Hughes, Richard Cobb, Peter Gay, John Lough, Natalie Davis, Hayden White, Peter Burke, Lawrence Stone, Keith Thomas e Jack Goody, in ordine sparso. E ancora: Michail Bachtin e Carlo Ginzburg, per tacere di tedeschi e altri, poco noti in Italia, tranne Ernst Cassirer.
Ma non si creda che Darnton sia uno studioso ‘perso nei libri’ e interessato unicamente al dialogo con i suoi pari.
Infatti i primi quattro capitoli del Futuro del libro ruotano attorno al progetto di digitalizzazione avviato da Google alla metà del decennio scorso, sul quale il suo giudizio è netto: l’accordo con le biblioteche pubbliche statunitensi «concentra il potere nelle mani di un unico soggetto» attraverso condizioni «così strettamente vincolate le une alle altre, da rendere impossibile qualunque intervento su singoli punti», col bel risultato finale «di favorire il profitto privato a spese del bene pubblico», dato che «gli interessi privati [sc. di Google] potrebbero avere la meglio sul bene pubblico per il prossimo futuro», cioè si avrebbe la trasformazione di «Internet in uno strumento per la privatizzazione di un sapere che attiene alla sfera pubblica»; «così «Google mi appariva un grande monopolio interessato a conquistare mercati, anziché un naturale alleato delle biblioteche, le quali hanno l’unico scopo di conservare e diffondere il sapere».8
I tre capitoli successivi di quel volume, quelli centrali, sono testimonianze dell’impegno di Darnton in progetti specifici per l’editoria statunitense, in bilico tra accademismo, avvento dell’elettronica e crisi delle biblioteche specializzate (ma questa è una ipersemplificazione della selva di problemi affrontati dall’autore e lì esposti con chiarezza ammirevole e paziente). I quattro conclusivi si dispiegano su altrettanti argomenti che vertono sulla storia del libro ‘tradizionale’ : la carta, la bibliografia (quella enumerativa e analitica o descrittiva o testuale, sensu Greg, McKerrow, Bowers come “scienza materiale della trasmissione dei testi letterari”, poi rinnovata da McKenzie e Tanselle in direzione di una “sociologia dei testi”9), la lettura e la comunicazione, «ovvero la produzione e la fruizione dei libri intese come fasi interconnesse» (p. 17).
Da questa ricostruzione e frequentazione incessante di un panorama vastissimo ed estremamente complesso, emergono almeno due punti a mio avviso di grande valore, che perciò tengo a evidenziare qui.
Il primo è lo schema del “circuito della comunicazione” che troviamo nel saggio del 1982 Che cos’è la storia del libro? 10 . Incidentalmente osservo che presenta notevoli affinità con la ricostruzione offerta per la medesima epoca dallo studioso tedesco Siegfried J. Schmidt (all’apice della sua fase costruttivistica) nella notevole monografia Die Selbstorganisation des Sozialsystems Literatur im 18. Jahrhundert (Suhrkamp, 1989).
Il circuito della comunicazione.
Il secondo punto risale a un saggio pubblicato nel 1999 (e di cui vidi una traduzione un anno dopo sul «Sole 24 Ore», di cui conservo tuttora gelosamente un ritaglio cartaceo per affezione11): all’epoca era una specie di visione profetica, un sogno a occhi aperti, che oggi ha preso la forma di questo Literary Tour de France, incentrato sulla Société typographique de Neuchâtel che compare spesso nei saggi darntoniani (come STN) in virtù della sua peculiarità: quella di essere «l’unico archivio completo di una casa editrice del Settecento giunto fino a noi» (p. 86).
Dunque alla fine del millennio Darnton era alle prese con l’incertezza di (come) costruire un saggio per valorizzare questo ‘tesoro’ raro e prezioso, da un lato, e le chances offerte dall’editoria digitale, dall’altro. Vediamo come ha risolto i suoi dubbi.
«Produciamo più informazioni di quante ne possiamo digitalizzare, e comunque informazione non è la stessa cosa di conoscenza» (p. 84). «Purtroppo, anche i libri hanno i loro limiti. Qualsiasi autore sa bene quante cose vadano eliminate prima che il testo sia pronto per andare in stampa, e qualsiasi studioso sa bene quanto sia in realtà poco ciò che si riesce a studiare negli archivi, prima che il testo possa prendere forma nella scrittura» (pp. 84-85). «Possiamo, sì, riversare nella Rete tutte le tesi che vogliamo. […] Ma di regola questo tipo di pubblicazioni trasmette soltanto informazioni, non è un’opera di studio pienamente elaborata, quantomeno per quel che riguarda le discipline umanistiche e le scienze sociali. […] Per diventare libro, la tesi va riorganizzata, tagliata qui, ampliata là, adattata alle esigenze dei non addetti ai lavori e riscritta da cima a fondo, preferibilmente sotto la guida di un editor esperto. Gli editor parlano del proprio intervento come di un “valore aggiunto”, ma quello che aggiungono è soltanto una parte del valore del libro finito. Peer review, impaginazione, composizione, stampa, marketing, pubblicità: per trasformare una tesi in una monografia è necessaria tutta una serie di risorse e di competenze. Anziché semplificare il processo, la pubblicazione elettronica aggiungerà ulteriori complicazioni, ma il suo valore aggiunto può essere molto alto» (pp. 100-101). «La soluzione è un e-book. Non che il libro elettronico consenta scorciatoie, né che io intenda riversare il contenuto delle mie scatole da scarpe [sc. piene di schede del lavoro svolto negli archivi] nella Rete. Niente affatto: mi propongo piuttosto di elaborare il mio materiale in più maniere diverse, trattando gli argomenti principali nel testo di superficie e includendo negli strati sottostanti mini-monografie e una selezione delle categorie di documenti più ricche» (p. 88). «Spesso i cosiddetti hyperlink, i collegamenti ipertestuali, sono soltanto una variante più elaborata delle note a piè di pagina. Anziché gonfiare il libro, è possibile strutturarlo per strati o livelli successivi disposti a piramide. Lo strato superficiale potrebbe essere un’esposizione sintetica del soggetto, da rendere magari disponibile in paperback. Lo strato successivo potrebbe contenere versioni ampliate di diversi aspetti dell’argomentazione, disposto non sequenzialmente, come in una narrazione, bensì come entità autonome che vanno a inserirsi nello strato superficiale. Il terzo strato sarà composto dalla documentazione, possibilmente di diversi tipi, ciascuno introdotto da un saggio interpretativo. Un quarto strato potrebbe avere un carattere teorico o storiografico, con una scelta di saggi e di analisi preesistenti sull’argomento. Ci potrebbe essere un quinto strato a carattere didattico, con suggerimenti per discussioni in classe, con un modello di corso di studi e pacchetti di materiali didattici. E un sesto strato potrebbe contenere le recensioni, la corrispondenza tra autore e editore e le lettere dei lettori; questo materiale potrebbe diventare un corpus di commenti che si accresce man mano che il libro raggiunge categorie di pubblico diverse. Un libro così fatto solleciterebbe un nuovo tipo di lettura. Alcuni lettori si accontenteranno di dare una scorsa alla narrazione dello strato superiore. Altri preferiranno una lettura in verticale, seguendo alcuni filoni sempre più in profondità, leggendo i saggi e la documentazione di supporto. Altri ancora navigheranno in direzioni impreviste, seguendo associazioni congeniali ai loro interessi o rimettendo insieme il materiale secondo il proprio disegno» (pp. 102-103). «Se si imbattono in qualcosa che vorrebbero approfondire, con un clic possono passare allo strato sottostante, dove troveranno un saggio o un’appendice supplementari. Possono continuare così, per tutto il libro, scendendo sempre più in profondità, esplorando corpora di documenti, apparati bibliografici, storiografici, iconografici, musiche di sottofondo, tutto quello che mi sarà possibile fornire ai lettori per ampliare il più possibile la comprensione del mio soggetto. E alla fine il mio soggetto sarà diventato il loro, perché sceglieranno i loro personali percorsi di esplorazione e di lettura, orizzontali, verticali o diagonali, dovunque li portino i link elettronici» (p. 86).12
Ecco, il libro tradotto da Maurizio è una prima concretizzazione di questo sogno: buon proseguimento!
UPDATE
Il libro è uscito da Carocci, datato settembre 2019; ringrazio Maurizio Ginocchi per avermene regalato una copia, per riconoscenza.
La copertina del testo di Darnton (ed. or. 2018)
PS [in questo caso da intendere anche come ‘piccola soddisfazione’!] Mentre raccoglievo i dati per scrivere questo post, ho notato un banale errore in una pagina dello stupefacente sito di Darnton, e ho pensato di farlo presente. Quasi non credevo ai miei occhi quando, il giorno dopo, ho ricevuto sulla posta di elettronica una breve risposta di ringraziamento, che trascrivo qui sotto:
Dear Alessandro de Lachenal,
Thank you for spotting this unfortunate error.
Best wishes,
Robert
Robert Darnton
Carl H. Pforzheimer University Professor
and University Librarian, Emeritus
Ora, intuisco che la risposta possa essere stata inviata in automatico da uno script ben congegnato o da un collaboratore (particolarmente fidato e addetto alla bisogna) del Nostro, ma almeno vuol dire che il sito è presidiato e accetta indicazioni, non solamente per le esigenze indicate in questa pagina, anche da umili correttori…!
2 R. Pasta, Una provocazione riuscita: la storia antropologica di Robert Darnton, pp. 375-399.
3 Cfr. il sesto saggio nel Bacio di Lamourette, intitolato Giornalismo: tutte le notizie che ci stanno le stampiamo [1975], ricostruzione analitica molto lucida dell’organizzazione del lavoro nei quotidiani statunitensi all’epoca (pre-informatica).
4 Cfr. ad esempio la ricostruzione di Peter Burke, Una rivoluzione storiografica. La scuola delle «Annales» 1929-1989 (Laterza, 20149 [ediz. orig. inglese 1990]).
5Che cos’è la storia del libro? [1982], nel suo Il futuro del libro, p. 208 (ma già nel Bacio di Lamourette, p. 65, seppure in una forma lievemente diversa).
7Il bacio di Lamourette, p. 235; la citazione è verso la fine dell’ottavo saggio, Storia del pensiero e storia della cultura [1980], mentre quella di Geertz è tratta da un saggio sulla “religione come sistema culturale”, compreso nel volume pubblicato nel 1973. Alla fine del decimo saggio (che uscì in forme diverse tra il 1973 e il 1974), Darnton torna sul tema parlando di una «visione antropologica dell’uomo come affamato di significati, e della concezione del mondo come un tenace principio ordinatore della vita sociale» (p. 319), sempre rinviando a Interpretazione di culture di Geertz del 1973.
8Il futuro del libro, pp. 80, 42, 34 e 14. Per questo Darnton scrive, appassionandosi: «Sì, digitalizzare è necessario. Ma, ciò che più conta, è necessario democratizzare. Dobbiamo aprire l’accesso al nostro patrimonio culturale. In che modo? Riscrivendo le regole del gioco, subordinando gli interessi privati al bene pubblico, traendo ispirazione dalla Repubblica delle Lettere degli illuministi per creare una Repubblica digitale del sapere» (ivi, p. 35).
9 Le ragioni per cui tale disciplina ha attecchito ben poco negli studi italiani, dove domina la critica del testo, sono spiegate ottimamente nei primi due saggi, Sguardo da un altro pianeta: bibliografia testuale ed edizione dei testi italiani del XVI secolo [1979] e Introduzione alla bibliografia testuale [1980], di Conor Fahy, Saggi di bibliografia testuale (Antenore, 1988), pp. 1-63.
10 Lo schema compare sia nel Bacio di Lamourette (p. 70) sia nel Futuro del libro (p. 214, da cui lo riprendo perché stampato meglio e anche più preciso nella resa terminologica).
11Testi perduti e ritrovati su Internet (traduzione di Marco Papi), «Il Sole-24 Ore» di domenica 7 maggio 2000, n° 122, p. 36. Cfr. una versione in inglese sul sito dell’associazione degli storici americani. Le citazioni seguenti sono da Perduti e ritrovati nel cyberspazio e da Libri elettronici e libri tradizionali, rispettivamente quarto e quinto saggio nel Futuro del libro (pp. 83-103).
12 Cfr. dunque Darnton.org, correttamente definito da Ginocchi il lavoro di una vita. Qui, nella sezione “Publications”, si trova anche un elenco aggiornato di tutti i suoi volumi e di buona parte dei suoi articoli, ovviamente in originale, molti dei quali scaricabili come PDF senza vincoli e menzionabili utilizzando la formula apposita reperibile, sempre in quel sito, nella sezione “Copyright and citation information”.
Effetti di promozione alla lettura “disinteressata” ha avuto la realizzazione della scuola media unica nel 1962.
Libri e lettori nell’Italia repubblicana, Gabriele Turi, Carocci. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro, dice la costituzione. Che dice anche che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Che l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. È prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai…
Nella Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio mi sono imbattuto quasi per caso nella locandina di un convegno internazionale, “Oltre il titolo: la traduzione e i suoi paratesti” – si terrà a Tor Vergata il pomeriggio di giovedì 19 aprile e proseguirà la mattina del giorno successivo alla Nazionale.
Locandina del convegno “Oltre il titolo: la traduzione e i suoi paratesti”
Nonostante la minacciosità del suo… titolo (scusate il bisticcio – qui, dalla tesi di Mariapia Tarricone del 2000, una spiegazione distesa, che segue molto da vicino il testo di Gérard Genette del 1987, 1989 in traduzione italiana Einaudi, a cui risale; da integrare con le dimensioni semiotiche, come indica il dizionario della comunicazione on-line dell’Ateneo Salesiano, ossia Franco LEVER – Pier Cesare RIVOLTELLA – Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche), potrebbe essere interessante proprio per l’aspetto specifico che mette a fuoco, grazie alla presenza di relatori di varia estrazione e impegnati su lingue e ambiti culturali anche molto diversi.
L’annuncio era già stato dato da Giulia Grimoldi su bloc notes, il blog della rivista Tradurre.it, ma ai primi di novembre dello scorso anno. Sarà quindi utile rinfrescare la memoria, riportandone qui il programma dettagliato, seguito da qualche breve cenno almeno sui 4 moderatori (sui contributori so ben poco, ma mi interessa soprattutto Sabine Schwarze, di cui ho apprezzato il contributo Übersetzungstheorie und Übersetzungskritik in Italien im 19. und 20. Jahrhundert (pp. 1951-1962), stilato con Andreas Bschleipfer e che porta il numero 196 nella XXVII sezione, dedicata a «Die Übersetzungskultur in Italien / Translation and cultural history in Italy / Histoire culturelle de la traduction en Italie» (pp. 1907-1981) e compresa nel terzo tomo del volume 26 di Übersetzung-Translation-Traduction, curato da Harald Kittel, Juliane House e Brigitte Schultze nel 2011, e parte del mastodontico progetto internazionale diretto per l’editore Gruyter da Herbert Ernst Wiegand, Handbuch zur Sprach- und Kommunikationswissenschaft (più brevemente HSK).
Di Schwarze invece non ho ancora consultato la promettente monografia Sprachreflexion zwischen nationaler Identifikation und Entgrenzung. Der italienische Übersetzungsdiskurs im 18. und 19. Jahrhundert (Nodus, Münster, 2004). Programma del convegno “Oltre il titolo: la traduzione e i suoi paratesti”
Gabriella Catalano, docente di Lingua tedesca a Tor Vergata.
Gabriella Catalano, germanista, è stata la curatrice (con Fabio Scotto) dell’importante volume con gli atti di un altro convegno internazionale, molto denso, svoltosi a Milano dal 18 al 20 novembre 1999: La nascita del moderno concetto di traduzione. Le nazioni europee fra enciclopedismo e epoca romantica (Armando, Roma, 2001); tra i relatori più noti segnalo Emilio Mattioli, Bruno Osimo e Stefano Garzonio. Oggi è Ordinario di Lingua tedesca a Tor Vergata e notizie pertinenti alla sua attività sono sul sito dell’università.
Matteo Lefèvre, docente di Lingua spagnola a Tor Vergata.
Matteo Lefèvre è Professore associato (II fascia) di Lingua e traduzione – Lingua spagnola (L-LIN/07) presso il Dipartimento di Storia, Patrimonio culturale, Formazione e Società dell’Università di Roma “Tor Vergata”. Un curricolo completo (dalla formazione alle pubblicazioni e gli insegnamenti impartiti, aggiornato al 7 aprile u.s.) si trova a questo link di Didatticaweb dell’università di Roma 2.
Simona Munari (di cui non ho trovato immagini su internet: compenso con le notizie su di lei) condivide con Lefèvre sia l’insegnamento (gli esperti direbbero “incardinamento”…!) all’ateneo romano di Tor Vergata, sia le competenze di ispanista, a cui però aggiunge anche quelle di francesista, impegnata in «ricerche sulla pratica traduttiva e sulla riscrittura come forme della mediazione fra culture europee in età moderna, con particolare riferimento alle questioni teoriche che a partire dal Seicento hanno animato il dibattito letterario francese sulla funzione della lingua quale modello e tramite di scambio culturale nell’Europa romanza. Ha indagato la traduzione come pratica censoria e l’evoluzione della lingua francese in rapporto alla definizione del canone e allo sviluppo dei generi letterari. Ha pubblicato vari studi sull’ispanismo e italianismo francese, l’edizione critica di due tragicommedie e uno studio monografico sulla circolazione dei romanzi spagnoli in Francia e Italia nel Seicento. In parallelo, si è dedicata allo studio e valorizzazione di alcuni Fondi d’archivio relativi all’ispanismo francese novecentesco presso il Collège de France parigino, con particolare attenzione agli epistolari inediti». Queste informazioni e un elenco integrale delle sue pubblicazioni (tre saggi in spagnolo anche scaricabili) sono reperibili sul sito ufficiale dell’università.
Nicoletta Marcialis, docente di Filologia slava a Tor Vergata.
Nicoletta Marcialis, infine, iniziò la sua attività traduttiva cimentandosi con un Michail M. Bachtin ancora praticamente sconosciuto, in Italia e in buona parte del mondo occidentale, nel volume curato da Augusto Ponzio, Michail Bachtin. Semiotica, teoria della letteratura e marxismo (Dedalo, Bari, 1977). Oggi, ereditando il magistero di Cesare G. De Michelis (se non proprio quello materiale, certo quello ‘ideale’, come testimonia la sua curatela, insieme a Marina Ciccarini e alla summenzionata Gabriella Catalano, della Festschrift recente, intitolata La verità del falso, Viella, Roma, 2015), è professore ordinario di Filologia Slava presso l’Università di Roma Tor Vergata. Anche per lei gran parte delle informazioni utili si possono ricavare dal suo curricolo, pubblicato su Didatticaweb, più i materiali reperibili sul sito dell’Associazione Premio Gorky.
Sono capitato davvero casualmente sul Call for Papers, ma la data in cui si terrà il convegno mi ha colpito: è quella del mio compleanno!
C’è tempo sino al 23 febbraio per inviare il proprio contributo su “Women, Language(s) and Translation in the Italian Tradition”, scrivendo a Helena Sanson (hls37@cam.ac.uk).
A me è venuta in mente subito la figura di Adele Masi, seconda moglie di Michele Lessona, rivalutata anche come traduttrice dalla storica Paola Govoni nel quarto capitolo del suo libro fondamentale (per le mie ricerche) Un pubblico per la scienza. La divulgazione scientifica nell’Italia in formazione (Carocci 2002) e poi approfondita ulteriormente nel suo contributo Adele Masi Lessona in E. Luciano, C.S. Roero (a cura di), Numeri, atomi e alambicchi. Donne e scienza in Piemonte dal 1840 al 1960 – Parte prima (Centro studi e documentazione pensiero femminile, Torino 2008, pp. 8-14, che non ho però consultato).
Per chi non ne sapesse nulla, può ancora trovare su internet tracce dell’incontro su “Michele Lessona, naturalista divulgatore“, svoltosi presso il Museo di Scienze Naturali di Torino sempre il 7 novembre, ma del 2011 (in realtà un altro sito scrive che fu rinviata al 28 novembre causa maltempo): la relazione di Govoni metteva a fuoco «i principali scopi e le funzioni della multiforme attività editoriale di Michele Lessona e Adele Masi negli anni del successo della cosiddetta “scienza per tutti”: un genere editoriale di cui i due furono protagonisti nei primi decenni dopo l’unità».
Ancora meglio, si vedano i cenni redatti da Ariane Dröscher nel sito/dizionario biografico di scienziate italiane, coordinato da un’altra brava studiosa italiana di storia della scienza, Raffaella Simili: Scienza a due voci. Le donne nella scienza italiana dal Settecento al Novecento.
Paola Govoni in un convegno a Cagliari (“Eva Mameli Calvino, itinerario al microscopio”, 6-7 novembre 2014)
Chiusa la divagazione, passo a ricopiare qui sotto la presentazione e i dati essenziali per chi fosse interessato a partecipare al convegno che si terrà presso il Clare College di Cambridge (UK) il 7 e 8 novembre 2018.
Key-note speaker: Professor Peter Burke, Emmanuel College, University of Cambridge Guest of honour: Dacia Maraini, internationally acclaimed novelist, essayist, playwright, and translator
This conference intends to explore women’s roles in the circulation of ideas and the dissemination of knowledge in the Italian tradition, across the centuries, by means of translations. It focuses on the role of women as translators, as well as, more broadly, agents of all kinds (e.g. translations for women, commissioning of translations by women) in the production and circulation of translations.
In the last few decades an expanding corpus of scholarly works and research activities have greatly contributed to extending our knowledge of women’s roles in the history and cultures of translation, especially with reference to England, France, and Germany, whereas in the Italian tradition, the topic has so far not received the scholarly attention it deserves.
This conference aims to offer a contribution to the cultural history of translation in Italy, also taking into consideration the complex and varied linguistic situation of the peninsula. Translation has at times been deemed a compromise between women’s artistic aspirations and the perils of authorship of imaginative literature, a way for women to leave their mark in an otherwise hostile literary environment. In fact, research on the topic has shown that this understanding of the role of translation for women is limiting. Translating has encompassed both a private and public element: some women took up translation as a literary pastime, whereas others have depended on the income they received from it to make a living. Other women have engaged in translation alongside their own creative writing, interacting and collaborating in cultivated circles with eminent figures from the republic of letters, and others still have seen translation as a means of expressing their scholarship and erudition, or expressing their political engagement and ideological convictions. Some women translators, whether in domestic contexts or in convents, in salons or at court, made texts available for the benefit of readers less familiar with other languages. Historically, women have translated from (and into) classical languages, as well as from one modern language into another, or from one dialect into another.
Crossing linguistic and cultural boundaries, women have translated a variety of genres, from poetry, novels, and plays, to history, biography, conduct literature, economic and legal texts, religious and devotional writings, scientific and philosophical works.
Questions to be considered when submitting proposals, include, but are not limited to:
– women’s access to the study of classical and foreign languages; the metalinguistic tools and resources available to assist translators in their task, as well as practices of language learning; women translators and their access to and use of the Italian language, and their contribution to its development by means of translations; the multilingual and multicultural contexts of the Italian peninsula, and therefore the linguistic and cultural contexts in which translations took place and were received; women as patrons, printers, and readers of translations, and their role in the circulation of translations among countries; individual and collaborative translations; the ‘authorship’ of translations (e.g. published anonymously/under initials/full name); women translators’ reflections on translation; translation practices and attitudes; tactics of intercultural negotiations of ideas and meanings, and of adaptation of the original texts; modes of production and distribution of translations; influence and reception of translations for and/or by women; intended audiences and readerships; material aspects of works translated; manuscript and print translations. Contributions that discuss translations of Italian women writers’ works into other languages are also welcome.
‘Women, Language(s) and Translation in the Italian Tradition’ is generously supported by the Isaac Newton Trust and by the Italian Section, Faculty of Modern and Medieval Languages, University of Cambridge.
PROPOSALS:
Presentations in English are strongly encouraged. Papers should be 20 minutes in length (+10 minutes of discussion). Proposals should be submitted in a single Word/Pdf document to the organiser Dr Helena Sanson (hls37@cam.ac.uk), and should contain the following information:
Name, Institutional affiliation (if any), Email, Title of the proposal and abstract (250-300 words), a short CV, with a list of your main publications (no more than 2 pages).
Proposals by postgraduate students and early career researchers are encouraged and particularly welcome.
Sono molto contento che il primo volume cartaceo a varcare la soglia di casa mia nel 2018 sia questo di Jürgen Trabant, sebbene quindici anni dopo la sua pubblicazione. Se non fosse chiaro, l’immagine che occhieggia dal ‘buco’ in copertina è quella di una torre di Babele (NOTA 1), metafora iniziale e archetipica nell’argomentazione dell’opera.
La copertina di Trabant 2003
Un aspetto assai apprezzabile è che in pratica l’ho pagato (su Amazon) la metà del prezzo riportato sul risvolto di copertina (edizione rilegata!), come a ben guardare si può ricavare anche da un’informazione sul sito dell’editore tedesco, anche se lo sconto dovrebbe applicarsi alla ristampa (?) del 2013.
A noi italiani dovrebbe interessare già solamente perché snocciola nei titoli dei 7 capitoli alcuni dei nostri luoghi più significativi per le humanities: Firenze, Bologna, Napoli… alle quali seguono anche Londra, Parigi, Riga, Tegel, Cambridge (sia quella nel Massachusetts, sia quella britannica), sino alla Foresta nera…
Aggiungo che, per un’altra di quelle ragioni insondabili e inspiegate, nessuno dei libri di Trabant qui menzionati figura nelle biblioteche pubbliche italiane, accessibili a partire dall’Opac SBN, ossia il Catalogo del servizio bibliotecario nazionale: quest’ultimo è attivo dal 1997 e permette di interrogare una vasta rete di «biblioteche statali, di enti locali, universitarie, scolastiche, di accademie ed istituzioni pubbliche e private operanti in diversi settori disciplinari». Del resto al centro della home page del portale ICCU (acronimo di Istituto centrale per il catalogo unico delle biblioteche italiane e per le informazioni bibliografiche), dal quale dipende il suddetto Opac (On-line Public Access Catalog), fa bella mostra di sé l’affermazione seguente:
L’ICCU gestisce il catalogo online delle biblioteche italiane e il servizio di prestito interbibliotecario e fornitura documenti; cura i censimenti dei manoscritti e delle edizioni italiane del XVI secolo e delle biblioteche su scala nazionale; elabora standard e linee guida per la catalogazione e la digitalizzazione. Opera in stretta collaborazione con le Regioni e le Università al servizio delle biblioteche, dei bibliotecari e dei cittadini.
Avrei qualcosa da eccepire sul fatto che sia effettivamente «al servizio dei cittadini»; meglio passare al tema specifico di questo post.
Jürgen Trabant (dal sito juergen-trabant.de/)
Con Trabant ebbi a che fare indirettamente, quando Laterza affidò a Donatella Di Cesare la traduzione del suo libro su Vico, La scienza nuova dei segni antichi. La sematologia di Vico (fu pubblicato nel 1996, come n° 1092 della collana «Biblioteca di cultura moderna», in altri tempi gloriosa, corredato da una presentazione di Tullio De Mauro). In questa edizione italiana fu aggiunto un capitolo dal suo importante Traditionen Humboldts (Suhrkamp 1990 – stw, 877), l’ottavo: “Fantasia e favella. Osservazioni su Vico e Humboldt” (era alle pp. 140-168 dell’originale tedesco). Il libro vichiano uscì poi anche negli Stati Uniti nel 2004, non so in quale assetto, cioè se conforme nel sommario all’originale, all’edizione italiana, o in un’altra versione ancora – magari in ossequio al principio humboldtiano della virtuosa Verschiedenheit, su cui Trabant è tornato con molta chiarezza in uno dei suoi ultimi testi, Globalesisch, oder was? Ein Plädoyer für Europas Sprachen (Beck 2014). Una dozzina di pagine del libro si possono scaricare gratuitamente, per farsi un’idea di cosa parli, dal sito dell’editore.
Per chi non voglia farlo o non legga il tedesco, riporto l’opinione di fondo espressa da Trabant pochi anni prima:
[…] c’è voluto un bel po’ per far capire alla gente che imparare le lingue è una maniera meravigliosa di esperire cosa sia l’alterità culturale, un’avventura dello spirito, e che non può certo far male alla testa sapere un’altra lingua, o (meglio) anche più d’una. Di questo però ne è convinta solamente la parte dell’umanità che non parla inglese, mentre dal canto loro gli anglofoni rinunziano a questo allenamento mentale [traduzione all’impronta e abbastanza libera del sottoscritto, da Was ist Sprache?, Beck 2008, p. 153].
Sul Globalesisch di Trabant è intervenuto anche Tullio De Mauro nella premessa al suo coevo libretto In Europa son già 103. Troppe lingue per una democrazia? (Laterza 2014). Aggiungo che Mehrsprachiges Europa / Europa plurilingue / L’Europe plurilingue è il titolo di un dibattito al riguardo tra loro e con Barbara Cassin, Sara Fortuna, Manuele Gragnolati, Luigi Reitani e Rossella Saetta-Cottone, che si è svolto la sera del 23 febbraio 2016 all’ICI di Berlino e ancora fruibile in rete.
Ricordo pure che Trabant ha curato un’antologia di Wilhelm von Humboldt: Das große Lesebuch (Fischer 2010), per poi sintetizzare le proprie idee su di lui nel denso volume Weltansichten. Wilhelm von Humboldts Sprachprojekt (Beck 2012). Qualche altro riferimento l’ho inserito nella NOTA 2.
Il libro curato da Trabant nel 1995, con un saggio di Donatella Di Cesare
Quasi certamente per ringraziarmi del supporto nella redazione di quel testo Donatella mi regalò, con breve dedica, un libro solamente curato da Trabant, al quale lei aveva contribuito con un lavoro teorico, interno al dibattito filosofico ed ermeneutico tipicamente germanico. Il volume si intitola Sprache denken. Positionen aktueller Sprachphilosophie (Fischer 1995, nella serie “Philosophie der Gegenwart” curata da Patrizia Nanz, che conobbi a Francoforte e il rapporto con la quale si esaurì dopo poco, data la scarsa ricettività laterziana alle proposte tedesche). Il saggio Di Cesare, in seconda posizione, è Über Sprachphilosophie und die Grenzen der Sprache e sta in buona compagnia, letteralmente ‘in mezzo’ ad autori noti anche da noi: infatti segue Sylvain Auroux, lì autore con Djamel Kouloughli (NOTA 3) di Für eine “richtige” Philosophie der Linguistik, ma precede Henri Meschonnic, che scrive Humboldt denken heute.
Con Donatella persi poi del tutto i contatti, salvo poi ritrovarla mediatamente nelle righe, ferme e autorevoli, che aprono l’edizione italiana di Eugenio Coseriu, Storia della filosofia del linguaggio (Carocci 2010), da lei stessa tradotto e soprattutto curato, essendone stata allieva a Tubinga una ventina d’anni prima. E non sarà un caso, allora, che il secondo libro entrato a casa quest’anno nuovo, acquistato on-line presso la Fondazione Campostrini di Verona, sia Eugenio Coseriu, Il linguaggio e l’uomo attuale. Saggi di filosofia del linguaggio (2007, a cura di Cristian Bota e Massimo Schiavi, con la collaborazione di Giuseppe Di Salvatore e Lidia Gasperoni, prefazione di Tullio De Mauro — il quale nella seconda delle poche pagine concessegli, scriveva: «Ora che anche Giancarlo Bolognesi se ne è andato, credo di essere il più vecchio testimone dei primi anni e dei ritorni di Coseriu in Italia, nei tardi anni Cinquanta» [p. 10]).
La Storia della filosofia del linguaggio è un’opera estremamente interessante di Coseriu (ma anche più in generale) e permette di intrecciare variamente gli studiosi qui menzionati. L’edizione originale tedesca, da cui proviene anche quella Carocci, aveva una premessa di Trabant, qui conservata (pp. 25-32) e istruttiva, ma anche lui è criticato dalla curatrice (v. p. 14). A quest’ultima bisogna comunque riconoscere il merito di avere messo in luce l’angolatura migliore per apprezzare quel testo, «che, a ben guardare, non è davvero una “storia”, ma è piuttosto una “filosofia del linguaggio”. […] E come tale va letta. […] è un grande dialogo con i filosofi […], per cercare una risposta alle sue {sc., di Coseriu} domande sul linguaggio. Ma anche per riconoscere ogni volta il suo debito. E che cosa si presta di più al fraintendimento in tempi come questi di appropriazione egocentrica, di boria e presunzione scientifica? L’habitus di Coseriu era esattamente l’opposto» (p. 15).
E ancora: «la filosofia del linguaggio è tutta la filosofia dal punto di vista del linguaggio […]. Il grande merito di Coseriu è stato quello di aver giustificato la domanda filosofica sul linguaggio» come distinta da quella storica e da quella scientifica (p. 17 – corsivi nell’originale). Ne consegue che, allo stesso modo, bisogna distinguere la filosofia del linguaggio dalla linguistica generale e dalla teoria del linguaggio, mentre ad esempio in Italia «un disprezzo per la dimensione filosofica, detestata o ignorata, può condurre e ha condotto [..] ad una confusione tra filosofia del linguaggio e linguistica». «La domanda filosofica mira ad andare sempre oltre, mette in dubbio ciò che linguistica generale e teoria del linguaggio accettano tacitamente, comincia là dove queste finiscono. Ma a ben guardare le precede, dato che solleva a problema filosofico il “fondamento” del linguaggio che linguistica generale e teoria del linguaggio si limitano ad assumere. Queste ultime si basano dunque sulla filosofia del linguaggio, la presuppongono. La domanda filosofica sul linguaggio è così la domanda sul “senso dell’essere del linguaggio”» (p. 18).
Ho l’impressione che questa vena polemica sia stata generata probabilmente dall’intreccio fra dolorosi vissuti personali e duri sfondi storici sovraindividuali, più o meno aggiornati.
Ma al di là di tali considerazioni, queste stesse righe mi hanno fatto intuire che l’obiettivo da perseguire in una riflessione ‘alta’ sulla traduzione sia far capire (anche se non mi è ancora ben chiaro come) l’importanza, anzi di più: l’imprescindibilità, direi quasi la consustanzialità di quella attività, sfuggente, eppure analoga a «quell’estraniamento talmente quotidiano, da apparirci quasi ovvio, senza il quale non potremmo esistere» che è il linguaggio (cito sempre dall’introduzione di Di Cesare, pp. 16-17).
L’attività traduttiva, riprendendone la foggia, ossia quasi (ma non del tutto) modellata dalla lingua, duplica quella (e la nostra competenza linguistica, in senso lato), appoggiandovisi e sopravanzandola, e perciò appare ancora più difficile separarnela, scinderla dagli usi che abbiamo e facciamo della lingua.
Dovrò tornarci, forse Trabant e Coseriu sapranno fornirmi spunti illuminanti.
Concludo segnalando il sito dedicato a Eugenio Coseriu, dal quale si possono ricavare informazioni su di lui e scaricare praticamente quasi tutti i suoi saggi: http://www.romling.uni-tuebingen.de/coseriu/
NOTA 1 – Nella fattispecie si tratta di un quadro dipinto nel 1602 da Roelant Savery e attualmente al Museo nazionale tedesco di Norimberga. Clicca qui per tornare al testo NOTA 2 – L’argomento era affrontato in un’interessante ottica comparativa da un altro linguista (francese) in un bel volume, uscito nel 1995 come numero 19 della collana che accompagnava la rivista diretta da Raffaele Simone dal 1986 al 2003, «Italiano e oltre» {notizia dell’ultim’ora: dovrebbe essere disponibile tutta on-line a breve}: Claude Hagège, Storie e destini delle lingue d’Europa. Mi piace immaginare che, come De Mauro aveva affidato la prima traduzione di “sette studi” di Coseriu al suo giovane neolaureato Raffaele Simone (Teora del linguaggio e linguistica generale, Laterza 1971), così la storia si sia ripetuta nella generazione successiva: difatti fu un allievo di Simone, Edoardo Lombardi Vallauri, oggi ordinario di Linguistica generale a Roma 3, a tradurre la seconda edizione del 1994 del testo di Hagège (l’originale è del 1992 – con un titolo francese più evocativo del nostro: Le souffle de la langue). L’edizione italiana era corredata da una Presentazione (pp. IX-XV) di Alberto A. Sobrero, che poco prima aveva raccordato in maniera eccellente da curatore 17 fra i migliori linguisti (quasi tutti italiani) nei due importanti volumi della Introduzione all’italiano contemporaneo, intitolati rispettivamente Le strutture e La variazione e gli usi (Laterza 1993). Clicca qui per tornare al testo NOTA 3 – Auroux scrisse con Kouloughli e Jacques Deschamps La filosofia del linguaggio (trad. it. di Ilaria Tani, Editori Riuniti, Roma 1998). Clicca qui per tornare al testo
Post aggiornato tra domenica 21 e martedì 23 gennaio 2018.
Non sapevo che il noto storico della lingua italiana avesse concluso la sua lunga carriera universitaria – questo la dice lunga su quanto io stia perdendo, e non da ora e non da questo solo fatto incidentale, il contatto col mondo universitario, ma tant’è.
Mi consola aver scoperto che su Youtube sia disponibile il video della sua “lezione di congedo dall’attività didattica”, tenuta alla Sapienza il 14 giugno scorso. Era un mercoledì, ma comunque sarebbe stato difficile per me andarci, e in questo caso benedette le nuove tecnologie! A questo link, un breve articolo ‘commemorativo’ sul suo magistero, pubblicato sul Messaggero (la rima interna è voluta!) e da cui ho tratto la foto che correda questo mio post.
Il titolo della conferenza di Serianni è Insegnare l’italiano nell’università e nella scuola, il video dura circa un’ora e dieci minuti e, per chi non sappia bene chi sia stato costui, ricopio qui le bioinfo presenti sul sito indicato, segnalando altresì che ivi, a sinistra del video in questione, ce ne sono elencati diversi con interventi dell’emerito, tutti da esplorare (e condividere).
Socio nazionale dell’Accademia dei Lincei, della Crusca e dell’Arcadia, direttore delle riviste “Studi linguistici italiani” e “Studi di lessicografia italiana”, Serianni è tra i maggiori studiosi di storia linguistica italiana antica e moderna. È autore di una Grammatica italiana (Utet), più volte ristampata, e ha curato con Pietro Trifone una Storia della lingua italiana in tre volumi (Einaudi 1993-94). In quattro decenni di insegnamento universitario Luca Serianni ha trasmesso ai suoi allievi l’italiano, le sue leggi, la sua evoluzione nei secoli, introducendoli attraverso la dottrina a strumenti di crescita culturale e personale.
Luca Serianni il 22 maggio 2017, alla fine della sua ultima lezione all’ateneo romano, forse in atto di ricevere un applauso fragoroso: la soddisfazione che trapela dal suo volto dev’essere riferita alla sua estesa e preclara attività di insegnante e saggista.
A Youtube sono arrivato grazie a questo articolo sul portale Treccani.it di Daniele Scarampi, che si definisce “insegnante di lettere, esperto di didattica e di didattica dell’italiano”. Il saggio mi sembra utile, soprattutto per chi insegni a scuola, in quanto propone un decalogo che va dalla meditazione sulla lettura, a una sana e moderata dissacrazione della precettistica grammaticale, fino all’importanza della linguistica testuale (che alla fine mi ha reso anche più simpatico l’autore).
Di Scarampi sul medesimo sito ho trovato anche quest’altro intervento, che parla di errori prendendo spunto dalla scenetta del film Brian di Nazareth nel quale il protagonista viene costretto a scrivere mille volte una frase corretta, esercizio nel quale sia lui sia il centurione che lo controlla perdono completamente di vista il contenuto e il fine eversivo della stessa (Romani, ite domum, che è l’equivalente dell’odierno Yankees go home) – il che la dice lunga sui rischi di accanimenti e ossessioni di vario genere…
Ironicamente o paradossalmente, però, nella seconda metà del testo di Scarampi c’è un refuso (cioè un tipo di errore, anche se rubricabile più come svista: ma produce comunque una stortura, una dissonanza): ERRATUM «Ritengo che ci abituassimo a cogliere il più bel fior delle produzioni scritte dei nostri alunni […]» CORRIGE «Ritengo che SE ci abituassimo a cogliere il più bel fior delle produzioni scritte dei nostri alunni […]» Evidentemente, nessuno è perfetto 😉
Ricordo che quando iniziai l’università Serianni faceva lezione di Storia della lingua italiana (seconda cattedra) a piano terra, dove c’erano aule più capienti di quelle ai piani superiori, e rispetto a docenti più affermati (Roncaglia, De Mauro, per non parlare della pletora di docenti di storia della letteratura che affollavano il secondo piano) era un po’ snobbato, in quanto era ancora vivo Ignazio Baldelli, che aveva appunto la prima cattedra.
Il cavallo di battaglia di Serianni era lo smontaggio del primo canto dell’Inferno dantesco, un vero pezzo di bravura, che adesso chiunque può godersi comodamente nell’edizione Bulzoni 1998, intitolata (immodestamente) Lezioni di grammatica storica italiana. Di fatto, una volta che forse per curiosità o forse per l’assenza di qualche altro docente, mi imbucai in una di queste lezioni, rimasi ammirato dalla sua ‘scienza’ e capî che era quasi adorato dai suoi studenti. Invece io avevo biennalizzato l’esame con Baldelli, al quale devo anche la firma su una delle lettere di presentazione con cui tramite il DAAD ottenni una borsa di studio per Friburgo (quello tedesco, in Bresgovia, sì, vicino a dove stava Heidegger) dove frequentai un corso di lingua tedesca, conseguendo un livello intermedio che nell’offerta del Goethe Institut italiano non era presente (ma dopo proseguî fino al Kleines Deutsches Sprachdiplom, corrispondente grosso modo all’attuale C1).
ΟYΤΩΣ AΤΑΛΑIΠΩΡΟΣ ΤΟIΣ ΠΟΛΛΟIΣ H ΖHΤΗΣΙΣ ΤHΣ AΛΗΘΕIΑΣ, ΚΑI EΠI ΤA EΤΟIΜΑ ΜAΛΛΟΝ ΤΡEΠΟΝΤΑΙ. «Così poco faticosa è per i più la ricerca della verità e molti si volgono volentieri verso ciò che è più a portata di mano». (Thuc. I 20, 3)