Non ho mai lavorato per Einaudi, quindi non ho avuto l’occasione di conoscere di persona Enrico Ganni, editor e traduttore dal tedesco per la casa torinese, purtroppo scomparso prematuramente il 17 luglio scorso. Dunque avevo qualche scrupolo a metter mano a questo post, pur ‘sentendomelo’, ma alla fine l’auspicio che le (buone) ragioni per averlo fatto emergano dalla mia stessa argomentazione mi ha convinto a superare le perplessità iniziali.

Da sinistra a destra, Enrico Ganni, Claudia Zonghetti e Leonardo Marcello Pignataro.
La foto1 qui sopra è stata scattata dalla traduttrice e animatrice culturale Anna Nadotti2 durante la presentazione a Torino il 2 novembre 2016, presso la Libreria Bardotto di via Giolitti, della nuova traduzione di Anna Karenina (Einaudi 2016, collana «Supercoralli», pp. 968, €28), romanzo capitale di Lev Tolstoj, pubblicato originariamente a puntate fra il 1875 e il 1877 (dopo dodici stesure, sembra). L’evento faceva parte di un ciclo, organizzato da Anna Nadotti stessa con Annalisa Ferretti, che si chiamava: “Leggere e rileggere in compagnia di traduttori e editor”.
La bella istantanea ritrae il sorriso sornione di Enrico Ganni, che probabilmente aveva intravisto Anna Nadotti mentre inquadrava i relatori; poi a destra, col microfono in mano, c’è Leonardo Marcello Pignataro (valentissimo traduttore da inglese, russo, francese, latino e slovacco, docente di vari corsi di traduzione e membro del comitato scientifico della Casa delle Traduzioni a Roma, insieme a Ilaria Piperno) e al centro l’eroina della serata, Claudia Zonghetti, autrice (in senso forte, come ha spiegato lei stessa) della traduzione suddetta.3
Ganni presenta già lucidamente se stesso e il lavoro che fa all’Einaudi, «un po’ strano, non facile», nell’intervista rilasciata a Sara Meddi il 22 aprile 2015, che consiglio a tutti di (ri)leggere.
Un suo intervento che svela chi fu l’inventore del nome dei Gialli, e cioè (spoiler!) Enrico Piceni, è uscito sul primo numero della rivista «Tradurre» (autunno 2011).
Più di recente, il 28 settembre 2019, a Roma, Ganni aveva ricevuto il premio “Giovanni, Emma e Luisa Enriques” nell’ambito delle XVII Giornate della traduzione letteraria (seguendo il link è possibile leggere la motivazione del riconoscimento, assegnato all’unanimità dalla giuria, formata da Stefano Arduini, Ilide Carmignani ed Ernesto Ferrero).
Può essere utile ricordare che Ganni visse a Francoforte sul Meno fino al completamento degli studi secondari: quindi era praticamente bilingue! Questo in parte spiega come abbia cominciato a lavorare in Mondadori, per passare poi a Feltrinelli; inoltre insegnò lingua tedesca presso il Goethe-Institut milanese, traduzione tedesca dal 1981 al 2000 presso la Scuola Superiore per Interpreti e Traduttori (che oggi si chiama Civica Scuola Interpreti e Traduttori Altiero Spinelli, che diresse anche dal 1994 al 1998) e fu lettore presso l’Istituto di Germanistica alla Statale di Milano.
L’articolo a mio avviso migliore su chi era e cosa ha fatto Enrico Ganni è quello di Roberto Gilodi, pubblicato su «Doppiozero» assai più tempestivamente di questo mio post. Ne cito qualche passo, cominciando dall’«eleganza gentile e l’ironia garbata ma mai irriverente» dello scomparso, a: «La mitezza di Ganni faceva tutt’uno con la sua franchezza e con la determinazione schietta a dire i no che all’editoria di cultura sono vitali per progredire», fino al giudizio conclusivo su «un uomo buono che ha saputo coniugare la cultura con l’umanità dei gesti semplici».
In tutto ciò Gilodi, che lavorò in Einaudi con Ganni a cavallo tra la seconda metà degli anni Novanta e l’inizio del nuovo millennio, racconta di come l’amico e collega, in visita a Günter Grass nell’abitazione di Lubecca, seppe far dire spontaneamente allo scrittore tedesco su cosa stesse lavorando ma senza porre domande dirette, intrusive. Splendido esempio di come Ganni «sapeva stabilire con i suoi autori una sorta di intimità sui contenuti che gli permetteva di entrare nel loro mondo creativo pur mantenendo una distanza rispettosa dalle loro vite. Un comportamento per nulla frequente nell’editoria, spesso succede l’opposto» (mio il corsivo su questo commento finale).
Un altro grande merito di Ganni è stato quello di aver ripristinato coraggiosamente l’intento a cui si era ispirato una trentina di anni fa Giorgio Agamben, decidendo di curare l’edizione einaudiana di Walter Benjamin. Che era un criterio cronologico, mentre l’edizione tedesca curata da Wolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser (più altri ancora, che soppiantava la prima scelta di opere benjaminiane, curata nel 1955 da Theodor W. Adorno in due volumi, ma sempre per Suhrkamp4) ne segue uno tematico. In queste due opzioni di costruire un ouvrage si intravedono, a mio giudizio, due tradizioni culturali ben precise e consolidate, dove in Italia prevale un’impostazione storicista, anche se non da intendere in senso strettamente o unicamente storiografico5.

L’edizione rilegata delle Gesammelte Schriften di Benjamin per Suhrkamp
E penso di non sbagliare troppo se trovo una qualche rispondenza con l’impostazione concordata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari con la triade Luciano Foà (anche qui un articolo simile), Bobi Bazlen6 e Roberto Olivetti per il capolavoro della esordiente Adelphi: ossia la prima edizione critica di tutte le opere di Friedrich Nietzsche, che ne fu contemporaneamente la loro traduzione in italiano, un caso più unico che raro, per quanto io ne sappia.7 A parte, poi, che ciò farebbe il paio con la circostanza fortuita (ma sarà davvero tale?), per cui Ganni subentrò in Einaudi a Roberto Cazzola, quando questi scelse di passare ad Adelphi dopo almeno vent’anni di militanza presso lo struzzo torinese8 e a sua volta Renata Colorni trasmigrò da Adelphi a Mondadori, per dirigere la collana dei «Meridiani».
Se questo non basta, apriamo una risorsa essenziale per traduttori e redattori, l’Opac Sbn, e lanciamo una banale ricerca col suo nome e cognome: il programma restituisce 132 occorrenze, da cui vanno cassati appena un paio di casi di omonimia. Negli altri troviamo il meglio della letteratura tedesca moderna e contemporanea: Goethe, Fontane, Kafka, Freud, Musil, Roth, Hesse, Brecht, Canetti, Grass, Zweig, Drewermann, Enzensberger, Fitzek, Améry, Grünbein sono stati tutti tradotti o perlomeno curati da Ganni – ponendolo così a pari livello, accanto a nomi già rinomati della germanistica italiana del Novecento, come Cesare Cases ed Ervino Pocar – ma vi spuntano anche, curiosamente (mi sarebbe piaciuto chiedergli come mai, da traduttore di saggistica) un paio di titoli, divulgativi ma divertenti, dello psicologo creatore della scuola di Palo Alto, Paul Watzlawick.
Per finire, mi piace accostare qui in limine alcuni giudizi su Ganni, espressi ‘a caldo’ (cioè, sulla spinta dell’emozione per la sua scomparsa, fra il 18 e il 20 luglio) da sue allieve o semplici colleghi in una mailing list per traduttori (in questo caso i nomi non contano):
- gli devo molto sia dal punto di vista umano che professionale. A lui devo buona parte di quello che ho fatto in questi ultimi dieci anni: la mia prima traduzione e, a cascata, buona parte di quelle che sono venute dopo, che senza quella prima non ci sarebbero state, l’insegnamento all’università. Insomma, oggi prendo consapevolezza di quanto sia stata una presenza fondamentale nella mia vita, una persona che ha fatto la differenza. Un docente appassionato, un grande traduttore, una persona colta e aperta, piena di voglia di fare e sempre disponibile;
- per molti colleghi è stato un mentore, un revisore prezioso, una figura ispiratrice;
- lo ricordo gentile e scrupoloso;
- ho avuto il piacere di lavorare con lui una sola volta e lo ricordo gentile e scrupoloso. Era evidentemente un uomo di cultura raffinata.
Non suonano inutilmente cerimoniosi (del resto, scrivere su una mailing list è una scelta libera, nessuno è tenuto a farlo se non si prova un’esigenza effettiva), quindi non sono neanche troppo distanti dalle attestazioni di grande affetto e stima, che va oltre quella intellettuale, espresse direttamente dallo scrittore e ispanista Ernesto Franco, in qualità di direttore editoriale Einaudi, quando ha ricordato la sua
cortesia di umanità opposta a quella di convenzione, la discrezione che si prende cura del prossimo opposta a quella che se ne disinteressa completamente, l’ironia che salva opposta a quella che ferisce. […] Enrico faceva parte di quelle rare persone che solo con la loro presenza sono capaci di trasmettere più equilibrio al gruppo in cui lavorano e conversano.
Ancora sul versante editoriale, l’ex direttore della raffinata casa editrice Hanser di Monaco, Michael Krüger (che conobbi alla Frankfurter Buchmesse come persona intellettualmente raffinata e di squisita cortesia), ha scritto un bel ricordo di Ganni sulla rivista specializzata «Börsenblatt» del 24 luglio 2020.
Trovo ammirevole anche la chiusa dell’articolo scritto da Luca Crescenzi per «il manifesto» del 21 luglio:
La sua discrezione a volte ironica mi pareva venire da una superiore saggezza, quella che in tedesco si chiama, con un bel termine, Souveranität. […] Non sono state molte, in questo paese, le persone capaci di restituire un’idea di cosa sia stata e di cosa significhi ancora oggi la classicità tedesca: il senso della misura e della civiltà nei rapporti umani, l’ironia come espressione critica del pensiero, il rifiuto dell’eccesso come principio morale, la ricerca inesauribile e congiunta della conoscenza e della felicità. Non sono stati molti, dicevo, gli intellettuali all’altezza di questo modello di civiltà e della capacità di trasmetterne l’esempio. Quegli intellettuali, però, hanno per qualche tempo reso migliore la germanistica e l’editoria italiana trasferendo in esse il senso della cultura per la vita. […] Ma ciò che muore, avrebbe detto Goethe, diventa. E il divenire di ciò che è stato deve essere il dovere di chi resta.
Dunque emerge, aleggia e si delinea da sé, quasi senza sforzo (come forse deve dare impressione di essere una buona traduzione?) la figura di un personaggio misurato, riflessivo, profondo, capace di entrare in sintonia con i propri interlocutori senza sovrastarli, ma anzi concedendo loro tutto lo spazio di cui hanno bisogno. Insomma, un concentrato delle qualità e delle caratteristiche che ogni traduttore vorrebbe trovare in un maestro. Invece oggi prevale troppo spesso la tendenza a parlare ‘sopra’, a esagerare, a forzare le proprie affermazioni, come a puntellare contro gli altri, che sono Mitmenschen, i propri consimili, la fragile debolezza dell’individualità personale, incapaci di ascoltarla, coltivarla e farla crescere in armonia condivisa.
Da quanto sono venuto riportando sin qui, mi illudo di credere che, invece, Enrico Ganni ci sia riuscito. E soprattutto che questo aspetto trasparisse agli astanti, seppur magari in maniera indistinta, anche attraverso un ‘sorriso sornione’ durante la presentazione di un libro al quale aveva dato il suo contributo, quale che fosse.
NOTE
1
Ringrazio Leonardo M. Pignataro per aver postato la foto su una mailing list per traduttori e Anna Nadotti anche per avermi concesso di riutilizzarla liberamente qui, oltre a una serie di informazioni che condivido nel mio post.
2
Per chi non conoscesse questa instancabile «critica letteraria, traduttrice e consulente editoriale per la letteratura inglese e indiana in lingua inglese», riporto qui di seguito alcune notizie cursorie, vale a dire scorciatoie informative mascherate da link a pagine su internet; l’ordine di presentazione vorrebbe essere top-down, cioè da siti più generali verso indicazioni sempre più specifiche, ma ognuno potrà riordinarli a suo piacimento (come pure suggerirne altri nei commenti a questo post, eventualità auspicata di cui ringrazio anzi sin d’ora i lettori benevoli).
- Ha partecipato al Festivaletteratura: clicca qui per la sua bio ed eventi collegati (anni 2002-2009).
- Tutti i 47 libri Einaudi legati al suo nome.
- Alcuni suoi insights sulla sua ritraduzione di La signora Dalloway di Virginia Woolf (Einaudi 2012).
- La collega Susanna Basso intervista Anna Nadotti sul numero 3 della rivista on-line «Tradurre» (autunno 2012).
- «Nazione indiana» ha raccolto le sue riflessioni approfondite e suggestive sul tradurre sia A.S. Byatt (con Fausto Galuzzi, 2010) sia A. Ghosh (con Norman Gobetti, 2016).
- Audio su «Radio Ca’ Foscari» in cui Anna Nadotti parla di Ghosh e del mestiere del traduttore (gennaio 2020).
- Un’intervista originale e ricca di spunti ad Anna Nadotti e Norman Gobetti sul tradurre a quattro mani, altrimenti detta più nobilmente ‘traduzione collaborativa’ (pubblicata il 26 novembre 2019).

Particolare dalla copertina della Karenina einaudiana: il volto di una delle più celebri bellezze russe dell’Ottocento, la principessa Leonilla Ivanovna Barjatinskaja, qui immortalata da Franz Xaver Winterhalter (1805-1873), famoso per tanti ritratti di regine.
3L’uscita della nuova versione di Anna Karenina suscitò qualche polemica, che vale la pena ripercorrere, non foss’altro per osservare che anche una traduzione può scaldare gli animi; perciò riporto qui appresso una serie di link sperabilmente utili a farsene un’idea propria (secondo un andamento che in parte riprende la struttura della nota precedente).
- Due confessioni-interviste-dichiarazioni, molto sincere, del giugno 2016 e dell’aprile 2018.
- Gli apprezzamenti di Ernesto Ferrero («La Stampa», 11 settembre 2016) e di Alberto Asor Rosa («la Repubblica», 1 febbraio 2017), da punti di vista differenti, con un borbottio di Gianfranco Petrillo (primavera 2017).
- Le prime osservazioni critiche, di Paolo Nori («Il Post», 5 luglio 2016), seguito in parte da Mario Caramitti («il manifesto», 17 luglio 2016).
- L’adattamento e regia di Valter Malosti, con messa in scena di Irene Ivaldi, presso il Teatro di Dioniso a Torino nel 2017.
Cfr. p.es. Roberto Calasso, L’impronta dell’editore, Adelphi, Milano 2013, p. 123.
Questa (nuova, o meglio ‘aggiornata’) edizione einaudiana di Opere complete di Walter Banjamin consta di sette volumi, ognuno dei quali porta il titolo Scritti, seguito dagli anni specifici di composizione (da 1906-1922 fino a 1938-1940), più il volume iniziale, del 2000, I «passages» di Parigi e quello conclusivo, del 2014, di Frammenti e paralipomena, che per la loro natura ‘imperfetta’ esulano almeno in parte da quel criterio. Dunque dall’edizione Agamben, pubblicata nel decennio 1982-93, mancavano gli scritti dell’ultimo ventennio di vita di Benjamin. Le Gesammelte Schriften constano di sette volumi (suddivisi in più parti, per un totale di quattordici tomi), pubblicati dal 1972 al 1989 «in collaborazione con Theodor W. Adorno e Gerschom Scholem e a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser […] secondo criteri formali e di contenuto»; essi «hanno accettato, affiancati da Enrico Ganni, di curare anche quella [sc., l’edizione] italiana» (cito dall’Avvertenza editoriale dei «Passages» di Parigi, t. I, p. VII).
Su Bazlen si vedano altri dettagli biografici nella voce firmata nel 1988 da Aldo Grasso per il vol. 34 del Dizionario biografico degli italiani.
La differenza è che all’epoca (prima metà degli anni Sessanta) praticamente non c’erano edizioni davvero attendibili del filosofo tedesco, neanche in originale, mentre Einaudi decise di tradurre integralmente Benjamin soltanto una decina d’anni dopo l’avvio dell’edizione completa Suhrkamp (e non so se fu Agamben a proporlo o, al contrario, l’editore stesso incaricò il giovane e ambizioso studioso italiano – sta di fatto che l’uscita nel 1982 del primo tomo, Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, trad. di Claudio Colaiacomo, poi studioso leopardiano, tornò utile per alcuni dettagli della mia tesi di laurea; osservo che nel 2017 è stata ritradotta la sola “Dissertation” con cui Benjamin si laureò nel 1919, a ventisette anni: Il concetto di critica d’arte nel Romanticismo tedesco, Mimesis, a cura di Nicolò Pietro Cangini). Sui testi niciani ritengo ancora proficui i saggi con cui si apre e chiude la guida Nietzsche. Etica, Politica, Filologia, Musica, Teoria dell’interpretazione, Ontologia, curata da Maurizio Ferraris (Laterza 1999), che firma anche quei due contributi (il secondo con Pietro Kobau: “I. Vita, opere, fortuna”, pp. 3-51 e “VII. La questione dei testi”, pp. 277-303). Assai più recente, si veda anche questa recensione di Alfonso Berardinelli a un libro di Sossio Giametta, sodale e collaboratore di Collli e Montinari.
Anche questa informazione preziosa deriva dall’articolo di Gilodi.