Michele Sampaolo (per me)

Un caro collega mi ha informato tempestivamente che la mattina del 2 novembre è venuto a mancare uno dei più alacri traduttori di saggistica in Italia: Michele Sampaolo. Personalmente, non ho alcun dubbio che la terra gli sarà lieve, in virtù dell’immane lavoro che ha praticato ogni giorno, per mezzo secolo, ai massimi livelli in quel settore, indispensabile alla cultura di un paese, ma troppo spesso trascurato. Michele padroneggiava senza alcun problema inglese, francese, tedesco, russo, ebraico, oltre ovviamente a latino e greco classico (e magari anche qualcos’altro che non ho mai saputo).
E al riguardo esordisco con un aneddoto: quando uscì il libro di Beck Conditio humana, Il rischio nell’età globale (tradotto da Carlo Sandrelli nel 2008), qualche sapientone eccepì che il sostantivo latino avrebbe dovuto essere corretto in condicio, come in par condicio: l’erudizione di Michele salvò tutti (capra e cavoli) argomentando che anche conditio era attestato, seppure come tardo (e difatti se ne trovano varie accezioni sul Du Cange, oltre che nel Forcellini).
Ma di soluzioni come queste, ai problemi ardui che insorgono talvolta in fase redazionale, talvolta in quella specificamente traduttiva, Michele ne trovò instancabilmente e in maniera quasi “naturale”; a questo arrivò anche grazie alla lunga collaborazione con la Treccani, probabilmente la migliore fucina redazionale in Italia sino a quando fu attiva. Ma ciò che più importa è la sua generosità dispensata erga omnes, che fossero intimi colleghi o traduttori esterni, più o meno bravi, di cui vagliava il lavoro. In lista Michele è stato definito «un redattore attento e scrupoloso, una persona gentile e disponibile, sempre pronta a condividere il suo immenso sapere». Grazie, Paola, e da parte mia confermo: la stima per lui era impagabile e tributatagli da chiunque lo avesse incontrato.

Non ci vedevamo più da parecchi anni, per le pieghe diverse che le nostre esistenze avevano preso, ma questo post nasce dall’esigenza di comunicare che la sua si è intrecciata strettamente con la mia in due momenti oltremodo significativi, almeno per me. Cerco di illustrarli qui appresso, tanto lucidamente sono ancora stagliati nei miei ricordi.

La copertina di un testo sul quale tornerò brevemente più avanti

La prima fu all’inizio degli anni Novanta: dopo un apprendistato in ambito lessicografico, condotto sotto l’ala protettiva demauriana, lavorando a Roma per case editrici prima milanesi, poi torinesi, raggiunsi uno degli obiettivi più importanti che mi ero riproposto (anche se magari non osavo confessarlo neanche a me stesso): l’assunzione (a tempo indeterminato!) nella notissima casa editrice barese già prediletta da don Benedetto.
Ecco il mio “dietro le quinte”.

Dopo l’estate 1991 Michele volle tentare l’impresa solitaria: con alle spalle già parecchi anni da dipendente (prima a Bari, poi a Roma, dove con lungimiranza era stata aperta un’altra sede fra il 1973 e il 1974, la cui centralità geografica si rivelò utilissima per la politica laterziana) aveva annusato il vento e capito che il futuro sarebbe stato molto diverso.
Volle quindi licenziarsi e provare a lavorare come freelance. Aveva avuto l’intuizione giusta, da profondo e riflessivo conoscitore dell’ambiente editoriale, ma forse la decisione fu prematura.
In tutti i casi, la sua bravura lo ha portato a collaborare in un arco di tempo molto esteso anche con una vastissima gamma di editori rinomati: il Saggiatore, Einaudi, Mondadori, Leonardo, Baldini & Castoldi, Donzelli, San Paolo (poteva mancare…?), La Nuova Italia Scientifica-Carocci, Vita & Pensiero. Posso averne dimenticato qualcuno, ma sicuramente andrebbe aggiunto tutto quanto realizzò per la scolastica, soprattutto laterziana (realizzata quasi esclusivamente a Bari), e che raramente è documentato e dimostrabile.

Tuttavia la sua uscita liberò un posto ambitissimo, e siccome con Laterza (allora guidata dall’abile e brillante Enrico Mistretta, classe 1939, che purtroppo di lì a poco sarebbe andato a svolgere una funzione culturale “prestigiosa” – quanto meno, remunerata meglio – alla Comunità Europea) stavo già collaborando (a titolo gratuito, sfruttando ciò che facevo per la Fondazione Sigma-Tau, specialmente la preparazione degli incontri di “SpoletoScienza”, che si sono succeduti per ventitré anni all’interno del Festival dei Due Mondi nell’antica città umbra e i cui atti ha pubblicato, appunto, Laterza), il direttore editoriale mi propose di prendere il suo posto.

Il libro pubblicato da Mistretta nel 2002

In quel momento non avevo davvero idea di cosa significasse, oltre alla meraviglia, al senso di gratificazione personale e al coronamento di un sogno (e di una carriera, per certi versi).

  • Anzitutto perché non conoscevo colui che indirettamente mi stava cedendo la sedia che aveva già occupato a lungo.
  • Perché mi sfuggiva il grande divario che c’era fra me e lui (a mio sfavore, beninteso), sia per una miopia congenita (vedi sopra), sia per la hybris che mi aveva pervaso al raggiungimento di quell’obiettivo.
  • Perché non avevo alcuna esperienza (né teorica, né tanto meno pratica) del lavoro editoriale che si svolgeva all’interno di una casa editrice.
  • E perché non potevo immaginare quanto, nel bene come nel male, e quanto a lungo mi avrebbe segnato quell’occasione divenuta inopinatamente realtà. Ma feci il salto, e forse non ringraziai mai a sufficienza Michele di quel “regalo”.

Ma non basta. I suoi consigli (a cominciare dalla presentazione di buona parte dello stuolo di traduttori che lui aveva selezionato e seguito per anni, e che continuai a utilizzare a mia volta con grande profitto), la sua chiarezza, la sua sicurezza negli interventi sul testo furono ancora per molto tempo una guida calma e affidabilissima (perfino quando non gli chiedevo nulla, mettiamo per imbarazzo…).

Del resto, va detto che Michele non si allontanò mai dalla Laterza. Lo attestano le due edizioni dell’immane catalogo storico (quasi 1500 pagine!), affidate alle sue mani (e alla sua memoria) più che esperte.

Adesso passo alla fase successiva, più matura (?).

La seconda volta che i nostri destini si incrociarono fu per certi versi una replica della precedente: lo scenario era assolutamente mutato, ma l’esito risultò di nuovo favorevole a me.
Ma perché possiate capire meglio, devo fare qualche passo indietro.

Nel 1999 fu avviata una seconda ristrutturazione della casa editrice: dopo lo smantellamento della redazione di Bari, pochi anni prima, fu la volta di quella di Roma. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si trattò di un evento improvviso e/o vissuto in maniera drammatica: l’iter fu studiato nei dettagli e pilotato per diversi mesi, anche tramite incontri con i lavoratori, suppongo al fine di evitare scossoni che avrebbero messo in crisi, almeno temporaneamente, la struttura produttiva dell’azienda. Agli “interni”, cioè i redattori che avevano un contratto di lavoro dipendente (come il sottoscritto), fu proposto un accordo che prevedeva la fornitura di lavoro a ciclo continuo per un congruo periodo, a fronte del loro auto-licenziamento (per ridurre le spese aziendali, mentre i singoli si sarebbero dovuti far carico di aspetti e dettagli fiscali sino a quel momento ignoti).

In zona Cesarini (leggasi: a dicembre), grazie a un caro amico trovai una scappatoia da quella “tonnara” ed entrai in un’azienda che si occupava di intrattenimento ludico, principalmente su internet (che proprio allora stava muovendo i primi passi, va tenuto presente!). Ci rimasi tre anni, feci esperienze molto interessanti e in un certo senso mi “ossigenai” a contatto di problematiche nuove, comunque diverse da quelle a cui ero abituato.

Uno dei loghi della società per la quale lavorai all’inizio del nuovo millennio

Quando però le cose cominciarono ad andare male (colpa della dirigenza inadeguata e del mercato troppo competitivo, ma non sono in grado di giudicare in quali proporzioni), non ebbi nessun’altra idea migliore che fare ritorno all’ovile, inscenando una sorta di “figliol prodigo” per rientrare nelle grazie della dirigenza, che aveva già preso a modificarsi in maniera sostanziale rispetto alla gestione precedente (infatti Vito Laterza, artefice della rinascita della casa editrice nel secondo dopoguerra, era scomparso a metà del 2001).

E, nella breve parentesi in cui avevo “dirazzato”, chi pensate che abbia svolto il ruolo già occupato da me? Sì, risposta esatta: Michele, il quale però stavolta mi cedette di buon grado lo scranno, pardon, il testimone, perché si diceva che al piano superiore della “Loggetta” ai Parioli non avessero accettato una sua richiesta di adeguamento del compenso (un’affermazione che non suonava affatto insolita in quel contesto…). E così tornai a fare per un’altra decina di anni più o meno le stesse cose che avevo fatto prima (davanti al giudice civile sarebbero poi state qualificate “mansioni”), ma che prima e dopo di me aveva fatto ancora e sempre (e verosimilmente meglio) Michele: insomma, tutto quello che passava a livello pomposamente formale come “Ufficio Traduzioni”, una scatola nera per chiunque fosse fuori da lì e di cui mi spacciavo come responsabile (o più fico: Translations Coordinator) ovunque fosse richiesto, opportuno e minimamente praticabile.

Se non vi siete stufati di leggere sin qui, c’è anche un epilogo.

Verso la fine dell’anno in cui cessai la mia avventura laterziana (o se preferite, per utilizzare un linguaggio più attuale, la sua “seconda stagione”), alla ricerca di spunti innovatori e altri agganci (tirava già un’ariaccia, però mi rifiutavo tanto pervicacemente quanto erroneamente di pensare al peggio) mi inventai di organizzare un ciclo di conferenze presso la Casa delle Traduzioni, pienamente in funzione già da un paio d’anni. Era incentrato sulla traduzione saggistica, da sempre punto cardine della casa editrice per la quale covavo anche altri propositi e alla quale volevo far fare bella figura (ad esempio, organizzando dal 2009 al 2012 quattro stage con persone addottorate presso la Sapienza, precisamente a Villa Mirafiori che ospitava Lingue, mentre adesso è rimasta unicamente Filosofia) e con cui ho avuto tutte le forme contrattuali possibili e immaginabili (anche quelle “sbagliate”).

Volli chiamare cinque traduttori che potessero testimoniare in maniera autorevole ciò che ciascuno di loro aveva fatto per la “casa Laterza”: il primo della lista non poteva essere altri che Michele.
Affibbiando al suo intervento di esordio un titolo nobilitato da una criptocitazione, tentai di ripagarlo così delle gentilezze che aveva usato nei miei confronti almeno due volte in passato.

Coda (forse, ormai non più necessaria).

Non ho nessuna foto di Michele, né se ne trovano sul web (io non sono stato capace di reperirle). Mi piace pensare che questo sarebbe stato il suo desiderio, tanto era schivo e modesto nel suo lavoro assai prezioso.

Chi non lo conosca e voglia sapere cosa ha portato a termine, potrebbe digitare il suo nome in uno dei campi di ricerca dell’Opac Sbn, modificando però l’etichetta, da ‘Autore’ o ‘Titolo’ a ‘Parole chiave’. Qualcuno dei libri (quasi un centinaio) prodotti dalla ricerca lo avrà incrociato senz’altro, almeno per sentito dire!

Provo qui a ricostruire alcune direttrici sommarie della sua attività instancabile. Non pretendo però di dire l’ultima al riguardo, e nemmeno “la verità”: prendetele semplicemente come un mio esercizio ermeneutico, congetturale, fallibile e come tale soggetto a confutazioni e miglioramenti. Se, anzi, vorrete proporne, sarò lieto di inserirli.

Il volume più remoto che tradusse (Paul Matthews Van Buren, Il significato secolare dell’Evangelo , ed. it. a cura di Filippo Gentiloni Silveri; Gribaudi, Torino, 1969) ci introduce subito a uno dei suoi interessi più vivi: la religiosità e la spiritualità, che difatti ritroviamo anche in anni più recenti, con testi di Sanders, Pelikan, Panikkar, Schürmann (su mastro Eckhart, nella serie ‘esoterica’ diretta da Toto Tamaro come quello citato immediatamente prima) e Tolan. Girava voce che in gioventù Michele avesse studiato in seminario per prendere i voti; pudore, riserbo o timidezza mi hanno sempre impedito di fargli domande dirette in merito, né dopo tutto mi interessava approfondire la cosa; posso soltanto affermare che questi temi lo hanno sempre interessato.

Peter Brown al conferimento del Premio Balzan (2011)

“Ortogonali” a questo primo campo si pongono grandi (spesso anche per il numero di pagine) volumi storici, una costante, verrebbe da qualificarli: da Obolensky (un classico, uscito nel 1974) a Ullmann, Vauchez, Mack Smith, Rémond, Winkler, Goodman, sino ai più recenti Wheatcroft, Lowe, Greengrass.
Il capolavoro tra essi rimane però a mio avviso la summa di Peter Brown: chi leggesse distrattamente il solo titolo (La formazione dell’Europa cristiana. Universalismo e diversità, 200-1000 d.C.), potrebbe pensare che i due testi apparsi nel 1995 (nella sfortunata ma eccellente collana “Fare l’Europa”, diretta da Jacques Le Goff e alla quale partecipavano a pieno titolo gli editori europei con i quali Laterza era in contatto da svariati anni, per affinità e interessi comuni) e poi nel 2006 (nella nuova “Biblioteca storica”) fossero praticamente identici. Invece il grande storico irlandese aveva riscritto di sana pianta dopo una decina d’anni la sua sintesi, arricchendola di una mole di dati che quasi ne raddoppiarono lo sviluppo in pagine: naturalmente toccò a Michele ricucire e ampliare sapientemente il lavoro già fatto una prima volta, senza stravolgerlo.

Questo mi permette di mettere in luce un’altra caratteristica di Michele.

Egli era un impiegato di vecchio stampo, nel senso che era in grado di fare pressoché tutto quello che poteva passare sui tavoli editoriali. In particolare, la sua padronanza assoluta delle tecniche di redazione si sposava magistralmente a quelle traduttive, formando un nesso indissolubile, la cui qualità spiccava in modo da rendere i suoi servigi irrinunciabili.

La copertina del secondo volume del Pensiero medico di Grmek (1998)

Chi abbia letto sin qui, potrebbe essere indotto a credere che Michele non avesse familiarità con le materie scientifiche. Nulla di più sbagliato! Ecco infatti spuntare dal suo cappello a cilindro lo psicoanalista Alfred Lorenzer nel 1976, la monografia di Pagel su Paracelso nel 1989, il “manoscritto russo” di Lorenz nel 1993; nel 1996 è attestato anche un Scienze della terra e biologia, e sempre in quel decennio seguì molto da vicino (in particolare, curò l’allestimento degli indici analitici) i tre volumi della Storia del pensiero medico occidentale diretta da Grmek. Nel 2002 volse infine in italiano uno dei libri più belli del genetista Lewontin. Quindi Michele era un’enciclopedia ambulante!

Michele sapeva digerire apollineamente anche una materia per me ostica come l’economia: stanno a dimostrarlo gli imponenti ma impeccabili volumi di Salvatore (quello per Carocci), di McCormick e la revisione di Rodrik (che per me fu un osso molto duro).

I quali ci portano vicino a un altro pallino, che Michele condivise con la dirigenza laterziana (soprattutto Giuseppe): l’anglo-tedesco sir Ralf Dahrendorf. Per qualche motivo mai chiarito fino in fondo, mi è parso sempre che l’epiteto di “erasmiano”si attagliasse perfettamente allo spirito e al corpo del suo traduttore…

La copertina di uno dei tanti libri di Dahrendorf tradotti da Sampaolo

Dahrendorf costituiva per Laterza una sacra trimurti (ma questa espressione era usata in un altro senso dalla caporedattrice di lungo corso, sua vecchia amica e vicina di casa) accanto a Le Goff e, dal nuovo millennio, all’émigré polacco Bauman. La traduzione di molti testi di questi autori infatti è stata assegnata a Michele, che era una garanzia tanto per la resa, austera ma scorrevole, quanto per le consegne, altro tassello essenziale nella programmazione editoriale.

Last not least, come già accennato all’inizio, Michele sapeva anche il russo. Talento sprecato in Laterza (come peraltro in moltissime case editrici nostrane), se ricordo appena un testo tradotto (da una giovane Michela Venditti, non sempre d’accordo con la patron Clara Castelli) da quella lingua durante i miei anni di militanza editoriale: ma era di Gurevič, lo stesso medievista tradotto da Michele nel lontanissimo 1982, battendo in breccia le epocali Categorie di Einaudi (anche se dall’autore in persona sappiamo che le due opere furono redatte pressoché in contemporanea). Sono però ugualmente fiero di avere una copia dell’opera curata da Manselli, con alcune correzioni nelle pagine iniziali quasi sicuramente di mano di Michele.

Il testo pubblicato da Laterza nel 1982


E ritengo che potesse essere stato solamente lui ad aver lasciato negli scaffali di una stanza della redazione romana alcune riviste sovietiche con articoli che magari intendeva proporre o qualcuno gli aveva chiesto di valutare a fini editoriali.

No, Michele non assomigliava neanche un po’ al grande linguista russo Jakobson…

Concludo questa scorribanda sconclusionata, rammentando che fu Michele a tradurre nel 1980 dal russo la gradevolissima intervista (para-autobiografica) a Jakobson della moglie Krystyna Pomorska (lo stesso anno uscì in francese per Flammarion e una versione più ampia è stata ripubblicata nel 2009 da Castelvecchi nella traduzione di Giulia Bottero), poi confluita nell’ottavo volume dei Selected Writings (1988, ma copyright 1987) col titolo informale di Besedy (conversazioni, in russo — e a tale riguardo non possono non tornare in mente anche le Conversazioni sulla cultura russa del compianto Jurij M. Lotman, curate da Silvia Burini e tradotte da Valentina Parisi per Bompiani nel 2017, ma nate nel 1976 per trasmissioni televisive che “Jurmich” poté tenere dal 1986 al 1991, come 35 ‘lezioni’ tanto poco tradizionalmente accademiche, quanto invece altrettanto istruttive).

Aggiunta (25 dicembre 2021)

Qui, su indicazione del collega e amico Luca Falaschi (che  ringrazio, ricordando altresì che ebbe la fortuna di conoscere Michele e il privilegio di poterci lavorare fianco a fianco ancor prima di me), riporto le belle parole pronunciate da Andrea Riccardi, in occasione della presentazione dell'edizione italiana della Storia mondiale degli ebrei, a cura di Pierre Savy (Laterza 2021), l'ultimo volume tradotto da Michele prima di lasciarci.
«Vorrei ricordare chi in genere non si nomina mai, cioè il traduttore [...Michele Sampaolo] che ho conosciuto in tanti anni di frequentazione della Laterza, perché questo è il suo ultimo lavoro prima della morte. Lo ricordo come un redattore e un traduttore di grande spessore culturale, un'intelligenza superiore, dotata di grande erudizione in tanti campi, un umanista, anche se la sua è stata una vita silenziosa e dietro le quinte, anche perché dotato - lo sa chi ha lavorato con lui - di un perfezionismo che qualunque autore normale giudicava eccessivo. Ho voluto aprire questa parentesi perché la traduzione di questo libro in italiano - traduzione che sembra facile dai libri francesi in italiano, ma il francese lascia nei libri italiani una patina incredibilmente pesante - è molto, molto riuscita».
La registrazione integrale dell'evento si può riascoltare all'indirizzo internet di Dante.Global, che corrisponde a questo su YouTube.
In particolare, l'elogio di Riccardi va dal minuto 28 e 33 al 29'36''.
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Scioperare per lavorare?

Bologna la grassa sembra essere anche la città più virtuosa nei confronti dei redattori editoriali.

corteo
1. Parto dall’attualità: fa notizia (e anche un po’ fine decennio Sessanta?) il primo sciopero dei lavoratori del Mulino, storica casa editrice nata a Bologna nel giugno 1954 sulla scia della rivista omonima (attiva dal 1951):[NOTA 1] un gesto di solidarietà allo sciopero degli impiegati Carocci di Roma, che mercoledì 17 sono andati a manifestare proprio sotto i portici bolognesi, forti dell’appello lanciato da quattro studiosi di chiara fama come Alberto Asor Rosa, Tullio De Mauro, Adriano Prosperi e Luca Serianni, e sottoscritto da 3500 fra studenti, lettori forti e gente comune in soli tre giorni. Cerco di andare più a fondo, come al solito, per (far) capire i motivi di questa “eccezionalità”.

Dopotutto si tratta di due editori “cugini”: nel 2009 il Mulino acquisisce Carocci, lasciandogli però apparentemente piena autonomia di gestione e di marchio, e oggi fanno parte entrambi del gruppo Edifin. La piega che ha preso questa vicenda dimostra però che sbagliava chi voleva leggere nella manovra il tentativo, legittimo, astuto o secondo altri addirittura saggio, di rafforzare il settore della saggistica di alto livello, i cui consulenti e il cui pubblico gravitano soprattutto nell’ambiente universitario, a ridosso di un periodo che avrebbe visto proprio quel settore tra i più segnati dalla crisi editoriale.
In realtà il Mulino si è comportato più da “patrigno” che da “padre adottivo”, tendendo a privilegiare la produzione e la distribuzione propria a scapito di quella romana e guardando sempre un po’ dall’alto in basso la società “terrona”, fino a imporle una piattaforma informatica a senso unico – le cui redini, cioè, sono unicamente in mano ai piani alti degli uffici di Strada Maggiore.[NOTA 2]
volantino
Più in generale, tale asimmetria informativa si rifletteva anche nelle incertezze, freddezze, ritrosie, chiamatele come volete, insomma, scarsa comunicazione fra i due marchi, che andava dalla difficoltà di stabilire rapporti fra le assemblee dei lavoratori per elaborare strategie comuni a livello sindacale, fino alla scelta dei testi da realizzare: non sono pochi, infatti, i casi in cui due titoli si contendono i lettori (e quanti, ci si potrebbe poi interrogare…) su campi specialistici, e posso immaginare autori di grande caratura tirati per la manica ora da Bologna, ora da Roma, anche se hanno pubblicato con il contendente poco tempo prima… il che è comprensibile in un mercato libero, rispettoso del pluralismo informativo, ma suscita più di una perplessità quando a farsi concorrenza sono due società che lavorano, per così dire, nella stessa barca – o si dovrà dire, più opportunamente a posteriori, che in fondo tirano l’acqua allo stesso m/Mulino?

Io stesso ricordo (da ex laterziano) assemblee in cui non si riusciva a elaborare una posizione comune tra la sede romana e quella barese: e se questo avveniva all’interno della medesima società, nella quale evidentemente convivevano e confliggevano opinioni, usanze, aspettative molto diverse, si può intuire quanto fosse arduo in passato, ma continua a esserlo tuttora, stabilire contatti fra editori diversi, “fare rete” come si suol dire, anche solo per evitare di commettere gli stessi, imperdonabili errori!
Ognuno ripiegato sull’ombelico a coltivare il proprio orticello, si finisce a percorrere tutti sempre la stessa via invece di far tesoro delle mancanze altrui per elaborare strategie e ipotesi innovative!
Ecco dunque come si arriva, stancamente e ancora una volta, a registrare le stesse lamentele, a snocciolare i soliti dati negativi all’ennesima fiera di settore.

Considerato tutto ciò, già esser riusciti a superare quell’inerzia, quell’apatia che rasentava il menefreghismo è senz’altro un ottimo risultato.
Sarà avvenuto perché si saranno ribellati all’idea di mandare a casa la redazione romana in blocco gli eredi odierni del nucleo redazionale della rivista Il Mulino, che si costituì «con atto pubblico il 27 febbraio 1965» in «associazione privata, senza fini di lucro (…) per organizzare istituzionalmente il gruppo stesso»?[NOTA 3]
E puntualmente il 18 dicembre Luigi Pedrazzi, l’unico socio fondatore ancora in vita (87 anni, ma mente lucidissima), ha espresso a Marina Amaduzzi del Corriere di Bologna la prima critica alla validità delle dichiarazioni di Edifin (la società che controlla le due case editrici e ha emesso il verdetto di condanna a morte per i 17 carocciani, anche se in teoria la decisione definitiva spetterebbe a quella Associazione di cultura e politica “il Mulino” fondata quasi cinquant’anni fa).
Critica che ha ampliato nell’intervista concessa a Simonetta Fiori sulla Repubblica del 19 dicembre. Due brani basteranno a farne comprendere la linea argomentativa: «Mi sembra che manchi l’etica di cui parlava Weber» e «mi sembra che Bassani [il ‘liquidatore’, in quanto amministratore delegato delle due case editrici] si stia muovendo con insensibilità rispetto alla stessa storia del Mulino. Storia che è anche presente». Già, spesso e volentieri i ‘tagliatori di teste’ non sono proprio in grado di vedere lo spessore culturale, prodotto da una certa ‘genealogia’, di ciò che ‘potano’, finendo così con l’affossarlo irrimediabilmente.

2. Viene da pensare che proprio Bologna abbia una sensibilità più fine, più sviluppata su queste tematiche, a leggere sul sito della Rete dei redattori precari di un altro sciopero, svolto il 26 novembre 2014 dai lavoratori della casa editrice Zanichelli (anch’essa bolognese, sebbene fondata a Modena nel 1859) a favore dei collaboratori esterni!
Va bene, era soltanto di un’ora, ma anche lì si parla di un «presidio»: ciò ha tutta l’aria di essere un altro fatto inaudito e probabilmente è un esito, fra l’altro, di iniziative come l’inchiesta pionieristica sull’Editoria invisibile affidata dalla Cgil all’IRES (Istituto ricerche economiche e sociali) dell’Emilia Romagna
Ne avevo scritto giusto un anno fa (a cui aggiungo adesso questo articolo), mescolandovi altre iniziative consimili.[NOTA 4]

Per tutto questo nella fattura di oggi ho deciso di segnalare e non farmi retribuire i 3 giorni nei quali ho scioperato a favore dei colleghi Carocci, accogliendo un suggerimento lanciato da Claudio Riccio su Internazionale dell’11 dicembre.

3. Ma cosa c’è, dunque? Fischia il vento e soffia… ehm, un’aria di rinnovamento per l’editoria italiana?
Così parrebbe, a traguardare in sequenza l’intervento tanto lucido quanto esasperato di Mario Guaraldi dell’11 dicembre e la ripresa, anzi il rilancio-e-superamento (si potrebbe tradurre così Überwindung?) da parte dello “sfogo” di Antonio Tombolini (alias Simplicissimus), il quale sostiene con veemenza ancora maggiore la proposta di una Costituente del libro che mandi definitivamente a quel paese l’Associazione italiana degli editori (AIE).
Rammento altresì che ha appena compiuto un anno di vita l’Osservatorio degli editori indipendenti (ODEI), un consorzio di un’ottantina di aziende che in nome della bibliodiversità sta già pubblicizzando una propria manifestazione: BookPride, che si terrà a Milano dal 27 al 29 marzo 2015 (ingresso gratuito).bookpride

Sarebbe meraviglioso se questo fermento fosse l’avvisaglia di un cambiamento. Temo però che non ci sia da farsi soverchie illusioni.

Ad esempio, Loredana Lipperini sul suo seguitissimo blog Lipperatura prima di esortare a firmare l’appello «Non solo per Carocci» si chiede un po’ retoricamente, a immediato ridosso degli annunci “funebri” diramati alla tredicesima Fiera della piccola e media editoria: «Non basta la sospensione delle pubblicazioni di :duepunti e quella di edizioni di passaggio a far suonare il campanello d’allarme?».
Aggiungo per completezza di informazione che ai primi di dicembre ha chiuso anche l’agenzia letteraria Vicolo Cannery.
Ma quando la simpatica giornalista e conduttrice di Fahrenheit su Radio 3 scrive: «il piano industriale che prevede il licenziamento di circa la metà dei dipendenti [della Carocci] non è che un assaggio di quello che potrà avvenire, e con ogni probabilità avverrà, presso altre case editrici», dimostra di non sapere che il processo di svuotamento e smantellamento delle case editrici, con l’esternalizzazione e il subappalto del lavoro redazionale, è iniziato già da un sacco di tempo e soprattutto non può fermarsi.
Le prime a essere allontanate dal “centro del potere” furono le tipografie, suppongo addirittura verso la fine degli anni Settanta. Poi, nel corso degli anni Ottanta, dapprima in sordina, casualmente, alla spicciolata, sono stati dismessi gli uffici tecnici[NOTA 5] e comparti più o meno ampi delle mitiche “redazioni interne”, complice la rivoluzione informatica – che, come tutte le faccende tecnologiche, ha un lato positivo e risvolto malvagio. Col tempo questa semplice bifaccialità[NOTA 6] si è evoluta trasformandosi nell’incubo di un nastro di Moebius: difatti adesso la sua fisionomia consiste nell’avere “dentro” esclusivamente ruoli direttivi e, in qualche caso, di coordinamento col “fuori”.[NOTA 7] Questo nastrino è stato avvelenato progressivamente da una corsa al ribasso tra i «nuovi poveri»,[NOTA 8] che negli ultimi 2-3 anni ha assunto forme ancora più odiose giacché (come mi ha riferito una collega milanese) ad esempio i gruppi RCS e Mondadori hanno “imposto” di aprire la partita Iva a gran parte dei propri collaboratori, anche di lunga storia precaria, per poter continuare a lavorare con loro: in questo modo buona parte dei costi non sono più a carico delle aziende, ma dei prestatori d’opera. E non si tratta di una specificità milanese: date le difficoltà in cui si è trovata anche una sorta di editore-istituzione come la romana Treccani (sì, proprio quella che adesso sta rendendo disponibile on-line buona parte del suo patrimonio cartaceo tramite il sito omonimo), la dirigenza di quest’ultima ha fatto richiesta analoga (rafforzata magari dall’obbligo di costituirsi in cooperativa­ – immagino come ulteriore salvaguardia contro eventuali rivendicazioni legali) a chi volesse continuare ad avere un rapporto di lavoro, nonostante fosse stato/a anche da molto tempo co.co.co o co.co.pro o qualche altro singulto starnazzante del genere.

Non credo dunque che il destino che attende i dipendenti del Mulino sia poi tanto migliore di quello che incombe sulle 17 teste dei romani. È probabilmente intuendo questo esito che i redattori bolognesi, per la prima volta dopo sessant’anni, hanno deciso di scendere in piazza, a sostegno di coloro che gli erano più vicini.
Ora ditemi voi se questo non è il migliore dei mondi possibili, cioè il deserto del reale…

 

 

BO_dasotto

NOTE

1) Le informazioni storico-culturali sulla società editoriale il Mulino si trovano sulle pagine del sito ufficiale. A parte le foto della manifestazione, non sto a ripetere qui tutte le notizie sull’agitazione, che si possono ricuperare agevolmente dalle pagine della rassegna stampa che qualche angelo “tennico” tiene costantemente aggiornate sul blog dedicato specificamente a Caroccinsciopero dagli stessi dipendenti romani.

2) Analoghe osservazioni ben circostanziate sono riportate dalla viva voce di uno degli impiegati a rischio licenziamento nell’articolo di Bibliocartina datato 15 dicembre.

3) Anche queste informazioni sono assolutamente ufficiali (e cfr. N. Tranfaglia, A. Vittoria, Storia degli editori italiani. Dall’Unità alla fine degli anni Sessanta, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 453).

4) Poiché il sito internet dove comparve non è più attivo, invito gli interessati-in-ritardo a leggerne su quello del Sindacato traduttori editoriali una sintesi o a scaricarne una versione più ampia.

5) Erano sostanzialmente quelli nei quali lavoravano i grafici e i correttori di bozze, a interfacciare direttamente la stampa tipografica.

6) L’immagine del foglio di carta era anche una delle metafore con le quali Saussure tentò di raffigurare il rapporto fra significante e significato (CLG 157, 159).

7) In ciò riscontro una totale analogia con i meccanismi illustrati già dieci anni fa da Francesco Antinucci, Tutto il potere ai segni. Marchio, brevetto, copyright: i nuovi monopoli, Editori Riuniti, Roma, 2002.

8) Tale dicitura circola tristemente ormai da tempo, però qui mi riferisco in particolare anche all’articolo di Roberto Ciccarelli sul Manifesto del 29 ottobre 2014 che riportava l’agghiacciante presentazione del terzo rapporto sui dati della gestione separata dell’Inps da parte dell’Osservatorio dei lavori dell’associazione XX maggio.

Precaria da 8 anni fa causa alla Mondadori e viene assunta!

Dopo otto anni da precaria fa causa alla casa editrice. Ora è assunta – Articolo 36.

Qui per il medesimo argomento, pubblicato prima su Re.re.pre e in forma più succinta.

Ecco, l’ha fatto lei e lo farò anch’io. Bene, ora l’ho pure scritto, anche se il mio avvocato mi ha già fatto intendere che per la prima udienza ci sarà da attendere almeno sino all’inizio dell’anno nuovo. Ed è richiesta la mia presenza — wow, che emozione! ok, seriamente: ne avrei fatto volentieri a meno 😦

Non so se la casa editrice contro la quale ho presentato ricorso sia intenzionata ad assumermi in pianta stabile: in pratica mi chiese di ‘accomodarmi’ già alla fine del 1999, ma erano altri tempi e all’epoca l’uscita era pilotata in maniera da garantire una collaborazione esterna per parecchio tempo ancora.
Il collega con il quale avevo condiviso la stanza per buona parte degli anni Novanta accettò quella soluzione e infatti continuò a lavorare così per qualche anno, cioè sino a quando un altro editore di Roma gli propose l’assunzione regolare (forse per prevenire problemi legali e altre forme perniciose di rivalsa, non certo per spirito illuminato, suppongo…): ovviamente non se lo fece dire due volte. Io preferii sottrarmi, in zona Cesarini, intascai il mitico “trattamento di fine rapporto” e me ne andai a scoprire le meraviglie di internet e dell’intrattenimento on-line, che però in meno di tre anni non si rivelarono quelle «magnifiche sorti e progressive» che io stesso auspicavo. Così, faute de mieux, decisi di tornare all’ovile… dove mi sono rinchiuso (quieto vivere?) per quasi 10 (dieci!) anni.

Di fatto, adesso la “mia” casa editrice probabilmente non sa neanche che ho fatto ricorso e che dovrà presentarsi in aula, a meno di non scegliere la contumacia — ma non sembrano i tipi, per come li conosco: la faccia ce l’hanno bella di bronzo, ma in quel modo rischierebbero di perderla, direi, scioccamente…

E al momento non saprei nemmeno io dire se mi va di rientrare in quell’ambiente (ossia, supponendo che anche nel mio caso il giudice imponga la [ri]assunzione). Lo frequento dal 1989 (quasi un quarto di secolo, accidenti!) e su due piedi preferirei che mi dessero i soldi che mi spettano (il consulente del lavoro ne ha quantificati tanti, cosa che ha capito subito il mio avvocato, nonostante si ostini a chiamarmi ‘professore’, o forse proprio per questo, e suona dunque doppiamente falso…) e poi ognuno per la propria strada!
Il settore è in crisi conclamata, di idee non ne vedo certo spuntare da loro, tanti rapporti lì dentro si sono guastati (certo, anche per colpa mia) e l’atmosfera non può più essere quella di una volta. Del resto, non lo era già da tempo!
Ma da vecchie volpi giurerei che tireranno al ribasso, non si vergogneranno di fare il piagnisteo (come racconta lo pseudo-Tobia in questo articolo pubblicato oltre un anno fa sulla Repubblica degli stagisti) puntando sulla notorietà e autorevolezza del nome (un marchio vero e proprio) e quindi prevedo, anzi temo che le cifre sulla carta dovranno essere ridimensionate di molto. Soprattutto se il giudice spingerà per comporre un accordo onorevole, mentre io avverto ancora tanta rabbia e animosità e insofferenza e malessere. Per me e anche per tutti gli altri (e sono tanti, ormai lo sanno anche i sassi) che condividono questo destino amaro.

Nel primo articolo citato all’inizio, di Riccardo Saporiti (che ringrazio pur non conoscendolo perché è riuscito a farmi fendere l’afa terribile di questi giorni a colpi di mouse e tastiera), c’è però un punto che mi trova in disaccordo.
E’ quello dove l’avvocato Massimo Laratro afferma, a proposito del rischio di mobbing: «La mia assistita sta operando tranquillamente e non ha subito alcun tipo di ripercussione. Forse spesso si dimentica che le aziende hanno bisogno di questi lavoratori, che una casa editrice non può fare a meno di redattori». [nota 1] Non sto mettendo in dubbio questa affermazione: può darsi che in Mondadori, che è un transatlantico, ciò non succeda, o che i dirigenti vigilino affinché non succeda (si accettano altre ipotesi, pregasi attivare le testoline). Però la realtà è differente: la stragrande maggioranza delle case editrici sono medio-piccole [nota 2] e in quegli ambienti ci si rigira a fatica (talvolta anche in senso strettamente fisico, dato il costo a metro quadro degli affitti): il mobbing ESISTE e farne le spese può risultare intollerabile, a lungo o a breve termine!
Inoltre, se nelle case editrici ci fosse bisogno DAVVERO dei redattori, dieci anni fa (in qualche caso anche prima, in forme diverse) non sarebbe iniziato lo svuotamento (less is more! era il mantra che si sentiva glorificare dappertutto, come una sorta di panacea) che lascia intatte solamente le funzioni dirigenziali e quelle assolutamente indispensabili al funzionamento ordinario — e talora anche queste sono snaturate, dal punto di vista contrattuale e affini.
Dunque è assolutamente veritiera la frase finale dell’articolo (presumibilmente sempre dell’avvocato Laratro): «stiamo creando una classe di working poor». Certo: bisogna esserne consapevoli, farlo sapere in giro, soprattutto a quelli più giovani e inesperti, insomma non aver timore di dire (gridare?) che il re è nudo: perché la sua nudità è il presupposto del mio/vostro/nostro impoverimento. Materiale, prima ancora che spirituale. No, poi magari anche quello, a seguire; con comodo. Tanto ci sono le pasticche di ansiolitici e antidepressivi, no? [nota 3]

Ma trovo anche un punto sul quale concordo pienamente e mi offre il destro di chiudere in bellezza.
L’avvocato dichiara infatti: «la precarietà è una condizione normale, riguarda il 60% dei lavoratori. E si basa non solo sul ricatto, ma anche su un consenso implicito del collaboratore che ha una professionalità medio-alta e facendo un lavoro in cui crede è disposto a qualsiasi cosa pur di continuare a svolgerlo». Ma in questo modo «è più facile per l’azienda schiacciarli e tenerli sotto il giogo. Per i lavoratori la paura è grande, anche perché perdere l’occupazione è visto come una sconfitta personale».
Ho evidenziato in grassetto i termini nei quali mi riconosco personalmente. Epperciò sottoscrivo anche questo: «”quello che vogliamo lanciare è un messaggio culturale: bisogna uscire dalla narrazione della paura e cominciare ad esercitare i propri diritti”. Anche se per farlo è “imprescindibile” l’esercizio di questi diritti, che inevitabilmente passa “dal conflitto”.»
Una lezione utile, per tutti!

 

[nota 1]
Precisazione (cito sempre dal pezzo su Articolo 36): «”La signora ha scelto di fare causa mentre ancora lavorava all’interno dell’azienda, visto che il suo contratto sarebbe scaduto a settembre. In sostanza ha chiesto che venisse accertata la legittimità della continuità di rapporto” [qui parla l’avvocato, per cui ho dovuto farci l’editing inserendo un altro tipo di virgolette; dopo prosegue Saporiti, chiosandolo]. In altre parole, ha ottenuto che fosse il tribunale a rinnovarle il contratto e a convertirlo in un tempo indeterminato, visto che di fatto il suo rapporto era già di natura subordinata.»

[nota 2]
Basandomi su quest’altro intervento di Articolo 36, a firma di Andrea Curiat (uscito in occasione dell’indagine sulla “Editoria invisibile” e che avevo già menzionato negli aggiornamenti al mio post di fine maggio sulle Trasparenze inquiete e affrante, evocate proprio datale inchiesta) si potrebbero sintetizzare come segue un po’ di cifre che restituiscono il succo dell’anomalia italica: un decimo delle aziende sforna ogni anno tre quarti dei libri messi in commercio, a fronte di quattro quinti degli operatori che non arriva a 50 titoli l’anno (media: 4 al mese; ed è una banale media matematica!). Forse (forse!) a livello internazionale il discorso potrebbe non esser molto diverso (anzi, all’estero le concentrazioni sono cominciate con almeno 10-15 anni di anticipo), ma è comunque da verificare.

[nota 3]
Del resto è l’allegra tendenza di questi ultimi anni quella di affossare la talking cure, la tecnica/terapia psicoanalitica classica, quella a base di parole, appunto, per proporre in alternativa una soluzione ‘chimica’. Che a parte eventuali effetti collaterali sulla salute individuale, di ‘sintesi’ mi pare abbia dalla sua essenzialmente il rivelarsi la soluzione più sbrigativa, demotivante e impersonale, per il medico ma anche per il paziente stesso! Meditate, gente, meditate…

Trasparenze inquiete e affrante

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AGGIORNAMENTI (12 giugno 2013)
  • Ho letto in ritardo l’articolo di Enzo Calderale su Tropico del libro, datato 4 giugno: un po’ lungo, ma in compenso ricco di link, di cui ho apprezzato quello alla recensione del filologo classico Dino Baldi; mi è piaciuto non tanto per le critiche all’ultimo libro firmato da Roberto Calasso (pure sostenibili), ma per l’insistenza sulla necessità di formarsi ancora, chiedendosi (anche nel mio caso, a questo punto sfruttando l’inoccupazione) cosa ha portato a fare questo lavoro e se ha senso continuarlo così.
  • E torna sull’argomento in maniera pertinente anche Andrea Curiat con un intervento sul sito Articolo 36 dell’8 giugno, dove tra l’altro risulta che l’AIE non ha risposto alle richieste di parlare con qualche suo esponente: ma se non ci pensa quell’ente, siamo messi tutti davvero male!
Ritengo estremamente importante segnalare la presentazione (13 maggio 2013, ore 14, presso la Camera del lavoro di Milano) dell’inchiesta sui lavoratori precari dell’editoria, svolta dall’Istituto di ricerche economiche e sociali dell’Emilia Romagna sulla grave (sia economicamente sia moralmente) situazione in cui versano oggi i collaboratori del settore editoriale: oltre il 92% ha un contratto ‘atipico’.
Diversi link sul sito ufficiale consentono di prelevare anche una sintesi di 1267 parole (pari a 8948 caratteri), 19 slides di presentazione e la locandina promozionale, oltre al rapporto completo: tutti in formato PDF, tranne la sintesi, che compare in una pagina a sé. Ottima anche la copertura della rassegna stampa, che al momento in cui scrivo conta già 9 link; molto ampia la presentazione su Bibliocartina, al punto da doversi distendere in due parti (con altrettanti link).

Se ne può leggere qui l’annuncio (20 giugno 2012) e qui un intervento a caldo di Simona (?), del 14 maggio u.s. (qui anche in PDF). Vi hanno contribuito in maniera sostanziale la Rete dei redattori precari e il Sindacato dei traduttori editoriali, le organizzazioni che sostengono i diretti interessati.

Manca invece dalla rassegna stampa il blog della compagna (?) Denisočka, che è andata alla presentazione e oltre a snocciolare i link di cui sopra, ne aggiunge altri significativi, come le conclusioni di Susanna Camusso, segretaria generale della Cgil (organizzazione che partecipava con la sezione Sindacato dei lavoratori della comunicazione), rubricate in 2 links da YouTube (qui il primo e qui il secondo), o uno streaming da La7. Ma soprattutto faceva notare, fra dispiaciuta e costernata: “Mancavano solo, nei grandi numeri, loro: i colleghi precari“. Brava, ben detto!

Per completare la panoramica, in un’ottica di esprit de système, occorre tenere presenti almeno:

  • la sesta edizione dell’inchiesta di Biblit sulle tariffe delle traduzioni in regime di diritto d’autore per committenti italiani, relative al 2011: qui le slides (in formato Power Point), presentate e commentate alla Casa delle traduzioni lo scorso 23 aprile, con Marina Rullo, e qui il link per leggere o scaricare il rapporto completo (22 pagine in PDF, ancor più ricche di tabelle e considerazioni, utili soprattutto a chi consideri di intraprendere la professione — hanno risposto ‘soltanto’ 272 traduttori, una quota apparentemente minima epperò significativa perché ripartiti in parti pressoché uguali fra ‘professionisti’ e ‘attivi’; c’è una connessione diretta con l’Editoria invisibile nella collaborazione dell’IRES alla elaborazione dei dati, che è abbastanza complessa e richiede competenze specifiche — il modello al quale ci si ispira è sempre l’inchiesta condotta dal giornalista e scrittore Pierre Assouline “La condition du traducteur”, presentata al Salon du livre parigino del 2011);
  • il rapporto Istat su “Produzione e lettura di libri” (pubblicato il 16 maggio 2013 e relativo a 2011 e 2012), che conferma su scala più ampia la condizione pessima che viviamo tutti in Italia (ma non solo: sappiamo cosa è successo in Grecia e Spagna, nonostante i mezzi di informazione tradizionali facciano fatica a seguire quegli eventi, ritenuti poco interessanti per il pubblico italiano). Dalla pagina con una breve sintesi si possono poi scaricare la versione completa (Pdf), le tavole (zip), i prospetti (zip) e una nota sulla metodologia adottata (Pdf). I dati aggiornano quelli presenti in G. Solimine, L’Italia che legge (Laterza 2010), autore presente alla Casa delle traduzioni tre giorni fa, ossia giovedì 23 maggio.
    Forse l’unico settore a risentire (poco) meno della crisi è quello dell’editoria per ragazzi, come segnalava già l’AIE a ridosso della cinquantesima edizione della specifica Fiera del libro (Children’s Book Fair) che si è tenuta due mesi fa a Bologna, da domenica 24 a giovedì 28 marzo.

A tutti gli interessati del settore, ricordo infine che anche la docente bolognese Giovanna Scocchera sta raccogliendo dati sulla revisione delle traduzioni tramite una sua “indagine conoscitiva”, disponibile in duplice versione, per revisori e per traduttori, scaricabile (in formato docx) da questo link. Eccone il succo:

«La revisione è per ogni traduttore un momento cruciale sia all’interno del proprio lavoro di traduzione sia nel processo successivo di lavorazione editoriale. La pratica della revisione gioca inoltre un ruolo fondamentale nella formazione dei traduttori in quanto analizzare, commentare, migliorare – in altre parole, rivedere – le traduzioni proprie e altrui è uno strumento di crescita per ogni studente di traduzione e di maturazione professionale per ogni traduttore».

Lo scopo è qualitativo: «raccogliere informazioni del tutto nuove o mai rese disponibili finora […per] tracciare un identikit della revisione e del revisore che sia il più esaustivo possibile e che raccolga informazioni sul metodo di lavoro, i luoghi e i tempi della revisione, e infine le finalità attese ed effettive di questa attività», intesa sia come auto-revisione, sia come etero-revisione. Le risposte verranno poi «incrociate con i dati raccolti tramite colloqui e/o interviste da realizzare con altri professionisti dell’editoria che intervengono a diverso titolo nel processo di lavorazione di una traduzione (editor, redattori, correttori di bozze)» e «analizzate, interpretate e organizzate in modo da farne un documento a carattere divulgativo».

Buona lettura a tutti (e compilazione a chi vorrà).