
L’immagine-mascotte del sito Biblit.it “Idee e risorse per traduttori letterari”
Biblit torna a sfornare una inchiesta sui compensi per traduttori ‘autoriali’1, a qualche anno dalla precedente. Quella presentata martedì 28 gennaio 2020 alla Casa delle traduzioni di Roma da Marina Rullo (fondatrice nel 1999 del sito Biblit.it e già responsabile del sindacato dei traduttori editoriali), insieme ad Alessandro Conflitti (algoritmista ed esperto di data science, ma dal 2010 anche traduttore) e Maurizio Feriaud (sindacalista SLC-CGIL, attualmente si occupa dell’ufficio internazionale e della tutela delle Figure professionali autoriali del settore editoriale) espone dati relativi al biennio 2017-2018 (la precedente era «in riferimento ai contratti firmati nel 2011 per committenti italiani», come da sottotitolo), anche grazie all’aiuto fornito inizialmente da Daniele Di Nunzio (ricercatore della Fondazione Di Vittorio, già attivo su indagini analoghe svolte in passato, come “Vita da professionisti“).
Godendo del privilegio di abitare a Roma e di non aver di meglio da fare nel pomeriggio del suddetto 28 gennaio, riporto in questo post i miei appunti di quell’anteprima. Chi preferisce andare alla fonte, ne trova una sintesi (con slides) sul sito Biblit.
Va anzitutto precisato (anche come possibile obiezione, o bias, come si usa in questi casi) che il campione non è ampio: 222 rispondenti, con la ‘perdita’ di una cinquantina di lavoratori rispetto a sette anni fa2. Uno dei dati salienti è l’età anagrafica non più giovanissima (oltre il 60% è compreso fra i 31 e i 50 anni e un terzo ne ha più di 50), che si potrebbe interpretare (rovesciandola, per così dire) come una difficoltà molto alta (direi, più schiettamente e desolatamente, una soglia quasi insuperabile) per gli esordienti a entrare nel circuito e/o alla mancanza di un ricambio generazionale; ciò andrebbe visto in parallelo alla diminuzione della quantità di traduzioni in italiano3.
Difatti secondo Isabella Zani, nota esponente di S.trad.e presente al dibattito, questo potrebbe essere dovuto alla ricerca e mantenimento di contatti ‘fidati’ da parte soprattutto di case editrici medio-piccole (rispetto ai gruppi editoriali più grandi), le quali proprio perché vendono relativamente poco4, devono puntare a colpo sicuro su una buona resa (cioè, senza dover sottoporre un’opera mal tradotta a revisioni o, peggio, rifacimenti, che fanno lievitare costi già in partenza più alti rispetto a un testo scritto in italiano, per l’acquisizione di diritti e per il compenso traduttivo).
Una conferma emersa (se mai ce ne fosse stato ancora bisogno…) è che si tratta di un mestiere ‘al femminile‘ : quasi quattro quinti delle risposte venivano infatti da esponenti del gentil sesso; come mostrerò più avanti, questo non è irrilevante. Abbastanza scontate anche le due regioni in testa: Lombardia e Lazio, dove si concentrano le città col numero più alto di case editrici, mentre non c’è stato nessun rispondente da Stati extraeuropei.
Per quanto concerne le combinazioni linguistiche, circa metà dei rispondenti afferma di praticarne un paio. Anche tale dato potrebbe rispondere alla necessità di diversificare gli sforzi/l’impegno, a fronte di una diminuzione oggettiva della richiesta di traduzioni sul mercato. In tutti i casi, l’inglese è predominante di gran lunga su tutte le altre lingue, il che inversamente comporta che i (pochissimi, in questa inchiesta) traduttori da lingue minori risultano pagati nel complesso meglio, per motivi facilmente comprensibili. Il tempo medio stimato per tradurre una cartella di 2000 battute di difficoltà media è compreso fra mezzora e un’ora – qui occorre precisare che l’inchiesta adotta come standard questo formato, riconvertendo i vari ‘tagli’ in circolazione, i quali spesso servono unicamente a confondere le idee; inoltre in quella durata media sono compresi anche i tempi di eventuali revisione e rilettura (che non dovrebbero mai mancare, al fine di garantire un lavoro più accurato…).
Questo introduce l’argomento centrale della ricerca e che interessa visibilmente tutti, ossia quello relativo ai compensi.
Rispetto al 2011, nonostante sia stata modificata l’impostazione del questionario, non pare ci siano variazioni significative: la maggior parte dei compensi è compresa nella fascia intermedia (11-15€), quelli più alti (> 20€) non sono cambiati, c’è un lievissimo incremento in quelli minimi (che comunque dovrebbero destare sempre scandalo, soprattutto per chi li propone, prima ancora che per coloro che li accettano).
La cifra in sé assume però contorni più vivi se accompagnata da altre considerazioni: ricade in questo range anche un cospicuo 45% di chi può vantare oltre vent’anni di esperienza nel settore, che però è anche la schiera di persone maggiormente insoddisfatte dallo statu quo. Tutto ciò si può legare ulteriormente all’autopercezione, cui era dedicata una sezione a sé: addirittura il 71% dei rispondenti ha dichiarato di avere scarso, se non proprio nullo, potere di negoziazione con la controparte datoriale – e qui occorre sottolineare chiaramente il fatto che di certo la rappresentanza femminile ‘soffre’ ancora di più per questa situazione, e poiché come detto le donne formano l’asse portante del settore, quest’ultimo non può non risentirne pesantemente (ci troviamo insomma di fronte a un classico circulus vitiosus).
Ancora: un ricavo lordo inferiore ai 10mila euro l’anno costituisce il reddito per oltre la metà dei 151 traduttori ‘professionisti’ (all’estremo opposto, cioè coloro che possono vantare un reddito superiore ai 30mila euro, sono appena il 2,25%!), che a spanne significherebbe meno di 700 euro al mese, spalmando le retribuzioni su tutto l’anno, anche se sappiamo che non è sempre così e al netto di spese sanitarie e altri sgradevoli incidenti (da intendere nel senso strettamente etimologico, oltre che imprevisto: ad esempio, si rompe improvvisamente la cinghia di distribuzione dell’autovettura o la lavatrice decide per conto suo di andare in pensione, dopo aver fatto pazientemente il suo bravo e utile dovere per quasi 365 giorni all’anno… peggio ancora quando si tratta di malattie improvvise o invalidanti, magari di genitori anziani e non più autosufficienti).
Sempre il 45% ha dichiarato di lavorare per più committenti (con uno prioritario), mentre non ci sono scostamenti significativi riguardo alla tipologia di produzione, cioè fra narrativa, saggistica e periodici, anche se questi ultimi in genere offrono retribuzioni un po’ migliori. Personalmente attribuisco tale dato al fatto che la stampa periodica (quotidiani, riviste, specialmente quelle illustrate) fruisce di entrate pubblicitarie che invece l’ambito editoriale librario non ha affatto; da un altro punto di vista, però, si tratta in realtà di testi quasi sempre più brevi, quindi il guadagno è solo in apparenza maggiore.
Potrebbe però confortarci il rilievo che anche case editrici medio-piccole paghino un po’ meglio; non troppo, ma sembrerebbe in parte un’inversione di tendenza5.
Una nota dolente che si accompagna alla pecunia è però fornita dalle scadenze (o termini) di pagamento. Posto che il 97% dei rispondenti viene pagato a cartella o a forfait, almeno nella metà dei contratti firmati i tempi indicati non sono stati rispettati, ovviamente nel senso che le somme dovute sono state corrisposte in ritardo al traduttore/traduttrice, che invece si era attenuto fedelmente ai tempi di consegna del lavoro.
Un corollario riguarda una serie di ‘lavori aggiunti’, come possono essere la stesura di una quarta di copertina, una sintesi da far circolare tra i promotori editoriali (magari in inglese, se si tratta di un’opera che l’editore pensa di poter vendere all’estero) ecc. Si tratta in pratica di tutte quelle attività che corredano la traduzione vera e propria, ma non ne fanno parte e quindi andrebbero retribuite a parte. Ebbene, dall’inchiesta emerge che se non ci sono state richieste in tal senso, un pagamento a parte è ottenuto soltanto in una percentuale inferiore al 20% dei casi6.
L’incontro, che contrariamente al solito si è prolungato ben oltre le 19, è stato chiuso da alcune considerazioni di Maurizio Feriaud, che reputo assolutamente condivisibili.
Questi ha ribadito che nonostante indubbie specificità, taluni aspetti del lavoro traduttivo sono comuni con altre categorie e il sindacato cerca appunto di unificarle per trovare risposte unitarie, soprattutto a livelli istituzionali, che sono tra quelli ritenuti più bisognosi di interventi migliorativi da parte della platea esaminata dall’indagine di Biblit. Oggi viviamo in una fase segnata da un arretramento generale delle condizioni di lavoro (il caso dei riders è forse quello più eclatante e, immagino per la sua novità, che ha più spazio anche nella stampa quotidiana7) e deregolamentazione del mercato (una deriva che a mio parere risale ad almeno un trentennio fa, se non di più, purtroppo…), per cui la fiscalità per i lavoratori di «opere dell’ingegno» (giusta la dicitura originaria, ripresa anche nel nostro Codice civile, libro V, titolo IX, capo I) diventa un problema enorme.
Tuttavia il panorama normativo che fa intravedere la direttiva 790 emanata nel 2019 dall’Unione Europea potrebbe far bene sperare per un futuro non troppo remoto e utopistico. Se è vero che ambo i partiti in carica nel governo precedente (Lega e Movimento 5 stelle) avevano votato compatti contro l’accoglimento di tale direttiva, essa offre alcuni punti meritevoli di essere còlti e sfruttati a nostro favore: fra essi, Feriaud ha segnalato il diritto a un equo compenso, la trasparenza sulla titolarità dell’autore (che potrebbe schiudere anche il discorso sulle royalties, una disposizione ben poco diffusa in Italia ma assolutamente legittima e da incrementare e migliorare in tante maniere diverse), la rappresentanza della categoria.
L’esortazione è dunque di appoggiare il sindacato, perché ovviamente nessuna organizzazione può essere credibile nelle proprie rivendicazioni se non è sostenuta attivamente da una base consistente di simpatizzanti che si rimboccano le maniche e danno il loro apporto, non importa se piccolo o grande, «ciascuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni»8.
N O T E
1Questa la dicitura preferita nell’indagine, rispetto a quelle più diffuse, ma ritenute anche più ambigue e in parte anche più restrittive, di ‘traduttore editoriale’ o ‘letterario’. Con essa si vuole fissare precisamente l’attenzione sul fatto che si è cercato di analizzare le traduzioni in diritto d’autore, giusta la legge n° 633 del 22 aprile 1941 (e integrazioni successive), ottimamente descritta e commentata nella nuova edizione (dicembre 2017) del Vademecum pubblicato dal Sindacato dei traduttori editoriali, sorretto dai riscontri dell’eccellente volume di Fabrizio Megale, Il diritto d’autore del traduttore (Editoriale Scientifica, Napoli 2004), la cui lettura consiglio davvero in prima istanza a chiunque voglia approfondire seriamente la tematica.
Un’altra utile distinzione adoperata nel rapporto Biblit (ma ripresa dal CEATL) è quella fra ‘traduttore attivo’ e ‘professionista’.
2Se era sicuramente sovradimensionata (almeno per l’Italia) la cifra di diecimila traduttori, che circolava in modo incontrollato alcuni anni fa, una quantità così esigua rischia invece di apparire poco rappresentativa di una schiera di lavoratori dell’industria culturale che quasi certamente è assai più ampia e variegata. Per contro, un numero così ristretto potrebbe spiegare alcune incongruenze già balzate agli occhi degli analisti.
3Un importante dato AIE, divulgato in occasione dell’ultima edizione della Fiera nazionale della piccola e media editoria (Roma, 4-8 dicembre 2019, alias PLPL) è quello relativo alle traduzioni: esse formano il 13,5% del mercato editoriale, in calo progressivo rispetto al passato, a fronte di un lusinghiero aumento delle traduzioni italiane all’estero. Tutto ciò si trova riassunto nelle slides ufficiali.
4Marina Rullo ha giustamente sottolineato un altro dato AIE del 2019, in sé piuttosto allarmante: il 91% delle aziende editoriali venderebbe soltanto 100 copie; gli editori medio-piccoli sarebbero però responsabili di quasi metà del fatturato di tutto il comparto.
5Si vedano le opinioni già surriportate di Isa Zani, cui aggiungo qui l’esperienza recente con Einaudi condivisa sulla rivista on-line Tradurre da Daniele Petruccioli (che, per la cronaca, il 28 gennaio sedeva proprio accanto a Isa). Un altro esempio, sempre però relativo a Einaudi, è offerto in questo stesso gennaio da Silvia Pareschi su Nazione indiana.
6Una volta (quasi un’era geologica fa…) tutte queste mansioni erano tipicamente a carico delle redazioni, organismi interni all’impresa: è chiaro che, spazzate via queste ultime per presunti risparmi di costi aziendali (su cui ci sarebbe molto da obiettare, anche se la tendenza si è avviata lentamente già negli anni Novanta del secolo scorso – chi scrive, ha avuto la sventura/fortuna di seguire in prima persona e in diretta lo smantellamento subìto dalla Carocci di Roma a cavallo tra 2014 e 2015), per l’editore la cosa più semplice è affidarne la compilazione a chi conosce meglio di tutti il testo tradotto, in base all’affermazione di Italo Calvino «Il vero modo di leggere un testo è tradurlo», che campeggia sulle magliette del sindacato.
Un caso particolare è la redazione degli indici (dei nomi di luogo/persona, o anche quelli, ben più complicati, dei concetti o analitici, in cui brilla l’editoria tedesca). In altri paesi questo lavoro specifico viene assegnato, con contratti a sé, a lavoratori specializzati, detti appunto ‘indicisti’, che in Italia sembra non esistano (o, se ce ne sono, non vengano presi in considerazione per le loro competenze al riguardo, che è in fondo lo stesso). Purtroppo molte volte questo lavoro, francamente ingrato (e comunque time-consuming seppur eseguito con opportuni strumenti informatici ed esperienza adeguata), viene scaricato anch’esso sul povero e inerme traduttore, che a quel punto dovrebbe quanto meno contrattare un compenso forfettario!!!
7Una sentenza recentissima equipara i ‘ciclofattorini’ brandizzati Foodinho ai lavoratori subordinati: cfr. su Ansa e Linkiesta.
8Secondo il noto passo marxiano che rendeva in tedesco l’originale greco negli Atti degli apostoli (IV, 35), a cui però affiancherei l’articolo 3 della nostra Costituzione che arroga allo Stato repubblicano il compito di «[…] rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Da traduttore e storico (?) delle traduzioni, a me paiono tutti casi evidentissimi di traduzione-come-riscrittura/riformulazione/ri- o transcreazione/remediation, sui quale varrebbe la pena di spendere più parole, seminari, discussioni ecc. Non è questo il luogo per farlo, ma intanto tiro un sassolino…