Il (mio) capitale umano

0. Sono andato a vedere l’ultimo film di Paolo Virzì, Il capitale umano: non sono né un cinefilo né un esperto di cinema, per cui vi risparmio il mio modesto giudizio che ne farebbe il lavoro più bello del regista livornese 😉
Prendo invece spunto dal film non certo per raccontarvene la trama, o ammorbarvi spiegando le ragioni del mio entusiasmo (che a leggere certe recensioni o commenti sul web, farebbe capire che proprio non me ne intendo “veramente” di cinema), ma perché mi ha fatto sorgere una perplessità.

1. Dopo il film, mi sono messo a cercarne un po’ di informazioni su internet ed essendo recentissimo (e il regista famoso, giustamente), sono stato sommerso dalla massa di pagine che ne parlano, spalmate su qualunque browser utilizziate. Il film giustifica alla fine il proprio titolo, chiudendosi con una citazione “seria”, spiegandolo col significato dell’espressione in uso presso le compagnie assicurative che devono stimare, quantificare il valore di un individuo coinvolto in un incidente (mortale, come nel film in questione, ma non esclusivamente, dato che si applica anche ai casi nei quali viene “soltanto” menomato, ridotto il valore complessivo di una persona – e per i quali la nostra società prevede comunque la possibilità di un risarcimento).
Immagino che questo dettaglio (ripeto, del tutto irrilevante rispetto alla storia, ma perciò oso parlarvene qui) derivi dal testo americano omonimo (al quale si sono ispirati, oltre al bravo regista, gli altri sceneggiatori: Francesco Bruni e Francesco Piccolo) di Stephen Amidon del 2004, pubblicato da Mondadori nel 2008 (traduzione di M. Matteini):

La copertina del testo da cui Virzì ha preso spunto

La copertina del testo da cui Virzì ha preso spunto (con il cast del film, appunto)

Non so perché, ma ho l’idea che tale accezione sia più adatta alla realtà (e alla mentalità) statunitense che a quella nostrana, anche se non metto in dubbio che esista davvero e sia intesa così; ma soprattutto noto che si tratta di un’accezione ‘ristretta’, limitata, derivata da quella ‘originaria’.

2. Infatti quest’ultima nasce in àmbito economico, come dichiarano correttamente siti più “seri”, come Utopie Onlus, o il Dizionario di economia e finanza pubblicato dalla Treccani nel 2012.
Che tuttavia presentano lo svantaggio di non avere nulla a che fare (e da dire) col film.
Ora: ci fosse un sito, dicasi UNO, che menzioni questa genealogia, o sappia collegare i due elementi. Men che meno, nessuno di questi sembra rinviare a testi sull’argomento, che invece da noi abbondano. Do sfogo qui alla mia libidine bibliografica, limitandomi ad alcuni di quelli che sbandierano l’espressione incorporandola nel proprio titolo tout court:

In tutto il suo splendore, dal sito della fondazione che assegna i premi Nobel

Becker in tutto il suo splendore, dal sito della fondazione che assegna i premi Nobel

Gary S. Becker (Laterza 2008, traduzione di Mario Staiano).
Qui è interessante notare che la prima edizione originale uscì nel 1964 (ma Laterza si è basata sulla terza edizione del 1993) per i tipi del National Bureau of Economic Research, un ente di ricerca privato statunitense, con sede a Cambridge (nel Massachusetts), che fra i suoi collaboratori vanta 22 Nobel: [NOTA 1] Krugman e Stiglitz dovrebbero essere fra quelli noti anche al grande pubblico, ma Becker medesimo ottenne il premio per l’economia nel 1992, con la motivazione seguente (traduzione mia): «per aver incluso una vasta gamma di comportamenti e interazioni dell’uomo, compresi alcuni non market [cfr. punto 4 per tale concetto], ampliando in tal modo il dominio dell’analisi microeconomica»; una formulazione che in pratica copre, o almeno si adatta all’impostazione di cui questo testo è verosimilmente il più rappresentativo.
Dunque si tratta di un concetto che circola da mezzo secolo almeno, anche se avrà preso piede lentamente, diffondendosi dalla cerchia specialistica in campi sempre più ampi come succede in questi casi (e sarebbe bello capirne [carpirne?] meglio la dinamica interna, studiandone qualche caso esemplare, magari anche con qualche tesi di specialistica da affidare a discenti particolarmente bravi e volenterosi…). [NOTA 2]

copertina di Cipollone e Sestito 2010

Comunque, per non apparire di parte, [NOTA 3] citerò almeno ancora il volume, più snello, di Piero Cipollone e Paolo Sestito (il Mulino 2010), due economisti della Banca d’Italia,

e un’ampia raccolta (oltre 300 pagine) di saggi di 19 autori, articolati in 5 parti e 12 capitoli (più Prefazione e Introduzione in pagine romane, e apparati consistenti in una nutrita bibliografia e Note sugli autori, che chiudono il volume), curata da Leonello Tronti, Capitale umano. Definizione e misurazioni (Cedam 2012): come si legge anche sulla prima di copertina, si tratta di un lavoro eseguito da Istat e Isfol, con la partecipazione della Banca d’Italia, della Fondazione Giovanni Agnelli, della Società Italiana di Statistica e dell’Associazione Italiana degli Economisti del Lavoro. [NOTA 4]

Capitale umano. Definizione e misurazioni

Capitale umano. Definizione e misurazioni

Difficile sostenere che tutti i siti che parlano dell’ultima fatica di Virzì diano per scontato queste conoscenze, vero? [NOTA 5]

3. Qui riporto solamente un assaggio dalla definizione di capitale umano tratta dalla enciclopedia di riferimento nazionale per eccellenza (già indicata sopra); anche chi non si occupi di queste tematiche dovrebbe comprendere che si tratta di un concetto fondamentale per il benessere e la crescita di un’azienda, nonché di un paese intero.
Treccani 2012: Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica, ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente, le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e a qualificarla, influenzandone i risultati. [corsivo mio, come anche alla fine; … Il c.u.] può essere posseduto solo dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite compravendita […]. L’attuale dibattito nella letteratura economica individua soprattutto nella conoscenza e nelle competenze individuali gli elementi principali di cui si servono le imprese per mobilitare in maniera integrata risorse interne ed esterne, impegnando forza lavoro più qualificata e adeguata alle esigenze di un Paese a economia avanzata.

4. E per non dare l’impressione di rimanere sospeso a mezz’aria a fissarmi l’ombelico, lamentandomi delle magnifiche sorti e progressive del capitalismo italo-mondiale e/o dello stato penoso dell’editoria italiana, vi regalo un altro collegamento, ben cesellato.
La prima “produzione editoriale”, cioè in sostanza la prima pubblicazione dall’Istat nel 2014, per la precisione il 18 febbraio, si intitola Il valore monetario dello stock di capitale umano in Italia – Anni 1998-2008 ed è scaricabile liberamente dal sito internet dell’ente di ricerca romano.
In 54 pagine tale pubblicazione sostiene «di mettere per la prima volta a disposizione del pubblico informazioni sperimentali circa il valore monetario attribuibile allo stock del capitale umano, che costituisce una delle principali risorse economiche del Paese assieme al capitale fisico e a quello naturale», combinando «la stima del capitale umano impiegato in attività market (ovvero quelle che vengono vendute sul mercato e per questo rientrano nel quadro principale del sistema dei Conti nazionali) con quella del capitale umano impegnato dalle attività non market (ovvero la produzione di beni e servizi fruiti e ceduti gratuitamente) e, più precisamente, da quelle riferibili alla produzione domestica e al tempo libero» (p. 5; cfr. anche p. 45, secondo cpv).
Il primo capitolo retrodata il concetto addirittura al Settecento, con William Petty e Adam Smith, [NOTA 6] scendendo poi a Pareto, Gini, Becker, Kendrick, fino alla Commissione europea, che sulla scia dell’Ocse [NOTA 7] nel 2004 ha precisato «il capitale umano come il potenziale di produttività di un individuo che dovrebbe includere anche la salute oltre all’educazione, l’esperienza e le competenze professionali, perché tutti questi elementi determinano la produttività della forza lavoro»; inoltre esso «si può accumulare e s’incrementa certamente attraverso l’istruzione e la formazione professionale formale, ma anche con altre forme di apprendimento meno formali nella vita quotidiana o nei luoghi di lavoro attraverso contatti con la famiglia, i colleghi, le reti sociali e civili». Tutto ciò è assimilabile a «investimenti che una comunità realizza per il proprio futuro ai fini del miglioramento delle condizioni di vita» (p. 8). In questo modo si arriva dallo IALS (International Adult Literacy Survey), passando per il TIMSS (Trends in International Mathematics and Science Study), al PISA (Programme for International Student Assessment Ocse), al PIAAC (Programme for the International Assessment of Adult Competencies), definito come «l’indagine internazionale più completa realizzata sulle competenze degli adulti che offre il quadro più ampio e sfaccettato sullo stock di capitale umano che sia stato finora pensato nei paesi Ocse» (p. 12). [NOTA 8]
Ovviamente non posso esporre qui in dettaglio la metodologia scelta, per cui salto direttamente agli esiti macroscopici, comunque ’fermi’ al 2008.
Anzitutto per le (sole) attività di mercato si nota uno sbilanciamento di ⅔ a favore degli individui di sesso maschile, ognuno dei quali può vantare un c.u. di «453 mila euro contro i 231 mila euro delle donne» (p. 31), anche se il divario si attenua prendendo in considerazione tra i parametri il lavoro domestico, una delle “attività non market”, in cui il gentil sesso, diciamo così, si prende la rivincita. [NOTA 9]
Un’altra considerazione degna di rilievo è che per l’Italia «nel 2008 lo stock di capitale umano risulta pari a oltre otto volte e mezzo il valore del Pil dello stesso anno. ed è quasi 2,5 volte superiore al capitale fisico netto del nostro Paese» (p. 31). Nonostante l’Italia resta indietro a molti paesi su tanti aspetti, insieme a Spagna e Regno Unito ha fatto registrare «un aumento del volume di capitale umano pro capite»: questo è stato interpretato come il risultato di un investimento nell’istruzione tale da «compensare l’effetto negativo dell’invecchiamento della popolazione», cosa che invece gli Stati Uniti non sono riusciti a fare (p. 37). Questo perché in base all’approccio adottato (Jorgenson e Frumeni, dal nome degli economisti che hanno analizzato la questione a partire dai salari: vedi cap. 2) «l’invecchiamento […] ha effetti negativi sulla dotazione di capitale umano in quanto una forza lavoro anziana ha una più breve vita attiva residua, mentre i giovani possono disporre di una parte assai maggiore della loro vita lavorativa e quindi di lifetime income più elevati»; inoltre «anche le misure volte a mantenere quanto più a lungo possibile nel lavoro i lavoratori esperti nelle classi di età centrali (rinviando l’età pensionabile) e lo sviluppo di una cultura della formazione continua e della riqualificazione dei lavoratori maturi contribuiscono a compensare gli effetti di erosione del capitale umano causati dall’invecchiamento della popolazione» (p. 39). [NOTA 10]

5. È arrivato il momento di tirare le conclusioni. Bene, faccio outing: tutto questo lungo preambolo mi è servito per affermare, forse in maniera più argomentata e consapevole, che anch’io sarei stato un c.u. di cui 1234567 [NOTA 11] avrebbe potuto giovarsi; ironia della sorte, ovvero destino cinico e baro, avverso o anche miopia dirigenziale, non hanno saputo o voluto avvantaggiarsene. In questo modo è stato praticamente buttato a mare il mio impegno, come se fossi un qualunque stagista di cui ci si può disfare senza rimorso alcuno (mi perdonino Eleonora Voltolina e tutti quelli che hanno messo su l’interessante e innovativo sito Repubblica degli stagisti: io stesso ho fatto da ghost-tutor a stagières per 4 anni, quindi so bene di quale considerazione sono degnati/e). Invece ho lavorato e collaborato con 1234567  per un totale di ben 17 (diciassette) anni, tra lavoro dipendente e collaborazioni esterne [NOTA 12]), e specificamente in ultimo un progetto che era stato appena avviato (presso la Casa delle traduzioni, e a proposito del quale il presidente della nota casa editrice aveva espresso anche un certo interesse e disponibilità: in realtà mentiva scientemente, e perciò in maniera ancora più odiosa) e avrebbe potuto svilupparsi in modo da assicurare all’azienda una visibilità e una fama che nessun’altra, al momento, poteva neanche lontanamente sognarsi. Peccato per loro, che non lo hanno capito, preferendo i loro numeretti da ragioniere; ma, perché negarlo, peccato anche per me, che mi aggiro adesso sfiduciato e (già: qual è il contrario di ‘propositivo’?) tra lavoretti (molto) parziali e (tutto sommato, altrettanto) inconcludenti.
Comunque non intendo mollare senza reagire, non fosse altro che per una questione di principio, quindi etica (di correttezza e deontologia professionale, se preferite) in fin dei conti (e saranno tanti, quelli da pagare…): finalmente, ben 15 (sì, quindici! lo sappiamo come funziona la giustizia nostrana) mesi dopo esser stato messo alla porta con una manciata di parole di circostanza, elargite con una certa sufficienza, o forse fastidio imbarazzato, a metà marzo si terrà la prima udienza della causa che ho intentato nei confronti dell’azienda alla quale ho dedicato «i migliori anni della mia vita» lavorativa.

E sì, c’era bisogno del titolo di un (bel) film per tirare fuori quest’argomento!

* * * * * *
[NOTA 1]
Che sia un caso preoccupante di nomen omen? Difatti: Nber ~ Nobel, come se i nomina fossero premissae rerum

[NOTA 2]
In realtà si tratta di un testo estremamente specialistico, con tanto di 17 grafici, 35 tabelle e zeppo di equazioni matematiche tipiche dell’economia accademica (con derivate, sommatorie, esponenti alla meno 1, radici quadrate al denominatore ecc.) davvero t-e-r-r-i-f-i-c-a-n-t-i ! Allo sguardo redazionale (obliquo? ortogonale? strabico?) una certa anomalia nella struttura del testo rispecchia questa caratteristica: infatti le parti prima e seconda sono precedute da due capitoli (oltre a due prefazioni, e seguite da due appendici) scritti evidentemente proprio per facilitare un po’ la comprensione dell’argomento (e difendere l’approccio scelto, che non ha avuto vita facile). E dal capitolo II traggo questa citazione, spero abbastanza illuminante: «L’istruzione, un corso per l’impiego del computer, le spese mediche e i corsi sui pregi della puntualità e dell’onestà sono anch’essi forme di capitale, nel senso che migliorano le condizioni di salute, la propria retribuzione o aumentano il periodo della vita in cui si è in grado di apprezzare l’arte e la letteratura. [… Questi] veri e propri investimenti in capitale […] producono capitale umano, non fisico o finanziario, nel senso che non è possibile separare una persona dalla sua conoscenza, dalla sua competenza tecnica, dalle proprie condizioni di salute o dai suoi valori allo stesso modo in cui è possibile, invece, dislocare il capitale fisico o finanziario detenuto senza venirne direttamente coinvolti» (pp. 16-17 – corsivi miei). E per far intuire ancora meglio l’importanza dei nuclei “caldi” del lavoro, aggiungo che i paragrafi snocciolati nelle pagine successive del capitolo sono dedicati a istruzione e formazione, famiglia e sviluppo economico.

[NOTA 3]
Infatti seguî personalmente nel 2007 l’affidamento della traduzione all’allievo di un docente, che suppongo avesse caldeggiato la pubblicazione, e intervenni su alcuni capitoli, cercando di ovviare tempestivamente ad alcune diciture-troppo-da-economista nella stesura che stava producendo!

[NOTA 4]
Gli autori sono: Tindara Addabbo (Università di Modena e Reggio Emilia), Gilberto Antonelli (Università di Bologna), Roberto Antonietti (Università di Padova), Antonella Baldassarini (Istat), Marco Centra (Isfol), Daniele Checchi (Università Statale di Milano), Marisa Civardi (Università di Milano Bicocca), Fabrizio Colonna (Banca d’Italia), Sergio Destefanis (Università di Salerno), Maria Laura Di Tommaso (Università di Torino), Sebastiano Fadda (Università Roma Tre), Barbara Fraumeni (University of Southern Maine), Andrea Gavosto (Fondazione Giovanni Agnelli), Giovanni Guidetti (Università di Bologna), Anna Maccagnan (Università di Modena e Reggio Emilia), Marco Mira d’Ercole (Ocse), Andrea Ricci (Isfol), Alessandra Righi (Istat), Emma Zavarrone (Università IULM). L’indice del volume si può scaricare in PDF da questo indirizzo e una breve recensione si trova a quest’altro indirizzo.

[NOTA 5]
Un paio di esempi del contrario (che però IMHO confermano l’andazzo generale, proprio perché menzionano il film a partire da altro, invece di partire dal film per ricuperare o connettervi quell’informazione essenziale, come sto cercando di fare in questo post) sono l’articolo di Andrea Greco del 23 febbraio u.s. nella rubrica “Economia e finanza” della Repubblica on-line e il post del 24 febbraio u.s. di Dario Di Vico sul suo blog “La 27a ora”, ospitato dal sito del Corriere della Sera. Commentando uno studio socio-statistico (vedi punto 4), Di Vico ricordava opportunamente come «le assicurazioni usino tecniche di valutazione del potenziale di produzione del reddito di una persona scomparsa o impossibilitata (per un trauma) a svolgere il proprio lavoro per definire il risarcimento danni, come raccontato di recente dal film di Paolo Virzì».

[NOTA 6]
Per chi sia interessato ad approfondire la rilevanza/discendenza storica, in rete ho trovato gratuitamente il primo capitolo di una tesi tutta incentrata sul c.u. (purtroppo non è fornito il nome dell’autore/autrice), con ricco corredo bibliografico nelle note.

[NOTA 7]
L’ente ha interpretato nel 2001 il c.u. come «le conoscenze, le abilità, le competenze e gli altri attributi degli individui che facilitano la creazione di benessere personale, sociale ed economico» (p. 8; la definizione in inglese è a p. 18).

[NOTA 8]
Si tratta di enti le cui attività sono da sempre al centro dell’attenzione di uno studioso come Tullio De Mauro: vedine p.es. le considerazioni brevi sui numeri 1009 (19 luglio 2013) e 1030 (13 dicembre 2013) di Internazionale .

[NOTA 9]
Nelle attività non market, segnatamente quelle di produzione familiare e di tempo libero, si registra difatti «una prevalenza della componente femminile, con un valore pro capite di 431 mila euro, pari al 12,3 per cento in più rispetto agli uomini» (p. 41); tale valore è poi maggiore nelle persone più giovani e viceversa. Identica correlazione vale, ma indipendentemente dal genere sessuale, per il livello d’istruzione: cioè, più è alto il titolo di studio, maggiore è la dotazione di c.u. Incidentalmente segnalo qui che la maggior parte dei siti che hanno dato notizia di questo studio dell’Istat non sembrano aver còlto questi valori compensativi, limitandosi a gridare allo scandalo (in maniera anche stereotipata, tutto considerato) per i valori più bassi riscontrati per le donne.

[NOTA 10]
Alla fine del medesimo post di Dario Di Vico citato alla nota 5 che si trova una critica a questo studio, pur importante (sebbene si definisca prudentemente «sperimentale»): «Il guaio è che i dati si fermano al 2008 e quindi non fotografano gli effetti della Grande Crisi che stanno mettendo a dura prova il modello sociale italiano. Si può aggiungere che in qualche maniera i dati forniti dalla rilevazione Ocse-Istat finiscono per sovrastimare il valore nominale del titolo di studio senza poter tener conto del fenomeno, ad esempio, delle lauree deboli. Riconoscimenti universitari uguali agli altri dal punto di vista statistico ma che hanno un impatto reale, in termini di occupabilità, molto basso sul mercato del lavoro e che obbligano spesso il giovane uscito dagli studi ad accettare un lavoro da “qualcosista”, per usare la definizione coniata da Giuseppe De Rita» [neretti nell’originale].

[NOTA 11]
Mi hanno consigliato di non rivelare il nome dell’editore, almeno fintanto che il procedimento giudiziario è in corso. Ho pensato che, in fondo, cioè a parità delle altre condizioni, le mie argomentazioni sarebbero valide per qualunque situazione lavorativa e così facendo non pregiudico unilateralmente l’esito del processo.

[NOTA 12]
Per la precisione: settembre 1991-dicembre 1999 come impiegato dipendente (responsabile dell’Ufficio traduzioni e assistente del Direttore editoriale per la programmazione della saggistica varia; inquadramento al livello A del Contratto collettivo nazionale grafici editoriali) e marzo 2003-dicembre 2012 come free lance (translations coordinator, sostanzialmente la medesima mansione di prima, retribuito con un compenso lordo fisso al mese, dal 2009 con partita Iva dopo la solita trafila di co.co.co, co.co.pro ecc.). Chiudo a questo punto con una domanda ‘metafisica’: il fatto che le due porzioni temporali sono pressoché equivalenti, vorrà dire che c’è un limite ‘fisiologico’ alle collaborazioni con questa casa editrice, ossia che più di quegli 8-9 anni non è possibile? Non tanto dal punto di vista dei rapporti personali, ma per la necessità di un’azienda di rinnovarsi, sparigliando gli ordinamenti cristallizzati? Il (retro)dubbio è che negli avvicendamenti da uno stato (nel senso che si usa in fisica) a un altro, non vengano però anche mantenuti gli aspetti positivi, a causa di una scarsa lungimiranza (per questo sopra parlavo di ‘miopia dirigenziale’), una mancanza di programmazione che sul lungo periodo possa individuare e salvaguardare quelli che siano stati scelti come VALORI dall’interno, anziché inseguire obiettivi posti dal mercato (mi ricorda un verso di De André: «continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai», che mi tocca ancora nel profondo nonostante risalga al lontanissimo 1973!).

Grazie dell’attenzione e della pazienza per essere arrivati a leggere sin qui.
Vi terrò informati sull’andamento del mio ricorso ex art. 414 ss. C.P.C. contro 1234567. E spero che nel frattempo analoghe azioni giudiziarie avviate anche da altri/e colleghi/e, ai/alle quali va ovviamente la mia totale solidarietà, facciano riflettere quelli del piano di sopra sulle scelte sbagliate…

3 pensieri su “Il (mio) capitale umano

  1. Da anni dico che questa editoria che rincorre i vantaggi a breve termine non curandosi per nulla di quelli a lungo termine sta incancrenendo la cultura e il mondo del libro. Mettere alla porta lavoratori che hanno maturato esperienza decennale senza dargli la possibilità non solo di continuare a sfruttarla a dovere ma nemmeno di passarla alle nuove leve è un grosso errore. Anche io, per esempio, sono qui con competenze maturate in ambito redazionale da un decennio di lavoro e non le posso sfruttare a pieno, perché non voglio cedere al ricatto della partita iva. Mentre il lavoro che facevo io ora è in mano a nuove leve sempre strangolate dal precariato (come strangolata ero io), che faticano a imparare e infilano errorini o schifezze in ogni libro (come errorini infilavo io). Ma che senso ha?

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